Secondo uno studio su animali svolto da fisiologi rumeni presso l’Università di Medicina e Farmacia Carol Davila e pubblicato su “Medicina”, la supplementazione di Taurina potrebbe offrire protezione cardiovascolare agli utilizzatori di AAS.(1)
Per lo svolgimento del loro studio, i ricercatori hanno diviso dei ratti maschi in 4 gruppi:
Un gruppo di controllo [C] al quale non è stato somministrato alcun farmaco;
Un gruppo al quale veniva somministrata un’iniezione settimanale di Nandrolone Decanoato [A];
Un gruppo al quale veniva somministrata della Taurina miscelata all’acqua [T];
Un gruppo al quale veniva somministrata un’iniezione settimanale di Nandrolone Decanoato e Taurina miscelata all’acqua [AT].
Nei tre mesi di durata dell’esperimento, la concentrazione dei Trigliceridi nel sangue dei ratti trattati con Nandrolone era ovviamente peggiorata. L’ipertrigliceridemia è un noto fattore di rischio per malattie cardiovascolari. La supplementazione di Taurina, tuttavia, ha impedito il verificarsi di questo aumento dei livelli di Trigliceridi, come mostrato nella figura seguente.
La somministrazione di Nandrolone decanoato ha portato anche ad una riduzione delle concentrazioni di HDL, una condizione nota per essere un fattore di rischio cardiovascolare. La figura seguente mostra l’impatto “contenitivo” sulla riduzione del HDL che la Taurina ha esercitato nei topi trattati con Nandrolone Decanoato e la supplementazione dell’aminoacido.
Nel 2016, i ricercatori rumeni avevano pubblicato un altro studio svolto su animali, condotto esattamente nelle stesse modalità, nel Journal of Medical and Biological Research. (2) In quello studio, la somministrazione di Nandrolone Decanoato aveva causato un aumentato della pressione sanguigna dei ratti trattati, ma la co-somministrazione con Taurina aveva ridotto notevolmente questo incremento pressorio.
I ricercatori affermano che, alla luce delle evidenti prove relative alla provata sicurezza della somministrazione di Taurina nell’uomo, il loro studio solleva il presupposto che la Taurina potrebbe essere utile in determinate circostanze associate ad alti livelli di androgeni circolanti in cronico, come nei disturbi endocrini o nell’abuso di AAS da parte degli atleti.
Bisognerebbe comunque prendere i risultati del presente studio con la dovuta cautela. Si tratta pur sempre di uno studio svolto su animali (ratti) e le variabili nella risultante che l’applicazione di questo protocollo integrativo potrebbero avere sull’uomo potrebbero essere assai diverse.
La dose di Nandrolone Decanoato somministrata ai ratti rapportata al dosaggio umano ammonterebbe a 200mg a settimana. Dosaggio decisamente minimale rispetto ai livelli (stupidamente) raggiunti dalla media degli utilizzatori odierni.
Per quanto modesto possa essere il dosaggio di Nandrolone Decanoato utilizzato nel presente studio, la dose di Taurina che i ricercatori somministravano ai ratti era decisamente elevata. Il dosaggio rapportato all’essere umano equivarrebbe a circa 15g di Taurina al giorno. In questo caso la dose è nettamente inferiore agli standard di utilizzo per questo aminoacido (dose massima raccomandata 8g/die). Giova ricordare che vi sono studi in attesa di conferma che indicano come un eccesso di Taurina negli adulti provochi ipertensione (il che andrebbe ad annullare i presunti benefici sulla pressione in co-somministrazione con AAS) e problemi gastrointestinali (diarrea e ulcera peptica). Sembra inoltre che l’assunzione di alti dosaggi di Taurina contribuiscano ad aggravare la psoriasi (comparsa di prurito, squame e diffusione delle lesioni cutanee).
Da quanto emerso in seguito a studi su animali, e in un singolo studio sull’uomo, sembrerebbe che i fitocomposti dello zenzero abbiano un lieve effetto dimagrante. Questa azione è dovuta principalmente al 6-gingerolo. Nel 2011, i ricercatori giapponesi dell’Università di Waseda hanno riportato di aver modificato la struttura molecolare del 6-gingerolo ottenendone una forma con un potenziale di funzione maggiore.(1)
Il 6-gingerolo, molto semplicisticamente, sembrerebbe agire come un inibitore della lipogenesi. Nelle cellule adipose, stimola la produzione di Adiponectina e inibisce l’attività del TNF-alfa. Di conseguenza, non solo nelle cellule adipose, ma anche a livello sistemico, il 6-gingerolo migliora la sensibilità insulinica.
Al contempo, il 6-gingerolo aumenta la temperatura corporea attraverso Il canale Vanilloide di tipo 1 del recettore transitorio potenziale. La Capsaicina, insieme alla Diidrocapsaicina uno degli alcaloidi responsabili della maggior parte della “piccantezza” dei peperoncini, cui si aggiungono gli altri capsaicinoidi, agisce attraverso la medesima via recettoriale.
Il fattore limitante del 6-gingerolo è dato dalla sua rapida metabolizzazione. Nel corpo, grazie al gruppo ossidrilico presente nella molecola, il 6-gingerolo viene facilmente convertito nel suo metabolita meno attivo, il 6-shogaol.
Questo è il motivo per il quale i ricercatori giapponesi hanno modificato la molecola realizzando l’aza-6-gingerolo. L’aza-6-gingerolo è più stabile del 6-gingerolo, pur mantenendo un alta similarità d’azione con la molecola madre. Per dimostrare tale effetto potenziale i ricercatori hanno testato la molecola su topi.
I ricercatori per il loro esperimento hanno somministrato a un gruppo di topi una dieta ipercalorica con elevato contenuto di grassi per 90 giorni [HFD]. Naturalmente, questi animali sono diventati più grassi dei topi ai quali era stato somministrato del cibo standard [RC]. I topi del gruppo HFD sono stati ulteriormente divisi in due gruppi trattati rispettivamente con 6-gingerolo [6G] o aza-6-gingerolo [A6G]. Se dovessimo rapportare il dosaggio utilizzato sui topi per l’uso umano, questo equivarrebbe ad una quota giornaliera di circa 500-700mg di 6-gingerolo o aza-6-gingerolo.
L’alimentazione ipercalorica ha causato nei topi un aumento significativo dei livelli di Insulina e Leptina, cosa che è stata impedita con la somministrazione di 6-gingerolo e aza-6-gingerolo.
L’assunzione di 6-gingerolo ha impedito ai topi trattati di accumulare un quantitativo di grasso maggiore rispetto al gruppo di controllo, mentre l’aza-6-gingerolo ha portato i topi trattati, nonostante la loro dieta fosse stata ipercalorica, ad essere più magri dei topi che avevano ricevuto cibo standard.
In seguito ai risultati sopra riportati, i ricercatori hanno affermato che l’aza-6-gingerolo possiede un potenziale valore terapeutico e potrebbe potenzialmente ridurre il rischio di malattie associate all’obesità, incluso il diabete di tipo 2.
La necessità di ulteriori studi per avvalorare tali ipotesi ha dato il via a nuovi test volti al raggiungimento di una comprensione approfondita dei meccanismi alla base delle attività di regolazione del metabolismo del glucosio e dei lipidi indotte dal aza-6-gingerolo.
Secondo un interessante studio svolto su animali dai ricercatori della Hadassah-Hebrew University Medical Center di Gerusalemme, e pubblicato nel 2017 su BMC Gastroenterology, assumere quantità consistenti dell’estratto del fungo Shiitake durante una dieta ipercalorica potrebbe ridurre l’aumento delle riserve adipose.(1)
I ricercatori che hanno realizzato lo studio non sono stati sponsorizzati da produttori diretti del fungo o da ditte di integratori che commercializzano prodotti contenenti estratto di Shiitake. Il finanziamento per lo studio è arrivato dal governo israeliano.
I ricercatori per l’esperimento hanno utilizzato topi maschi C57BL/6 i quali sono stati sottoposti ipernutriti e divisi in quattro gruppi per 25 settimane.
Uno di questi quattro gruppi era di controllo, ed i topi che lo componevano non hanno ricevuto alcuna sostanza bioattiva [Control].
Gli altri tre gruppi erano così gestiti:
Gruppo Vitamina D: i topi di questo gruppo ricevevano una dose di vitamina D tre volte a settimana[Vit D];
Gruppo Shiitake: i topi di questo gruppo ricevevano un estratto di Shiitake tre volte a settimana [LE];
Gruppo Shiitake arricchito in Vitamina D: i topi di questo gruppo hanno ricevuto l’estratto di Shiitake contenente una quantità maggiore di Vitamina D [LE + Vit D]. Questo “speciale” estratto è stato ottenuto irradiando i funghi Shiitake con la luce ultravioletta. Ciò ha aumentato le concentrazione di vitamina D2 nell’estratto.
La dose di estratto di Shiitake dei gruppi LE e LE + Vit D rapportata all’uomo equivarrebbe ad un dosaggio di 1.5-2g di estratto assunto tre volte alla settimana.
La differenza d’effetto dei due estratti (Shiitake normale e irradiato) sono minime e non statisticamente significative. Per questo motivo ci si concentrerà sul gruppo trattato con l’estratto di Shiitake non irradiato.
Al termine delle 25 settimane di sperimentazione, i topi che erano stati trattati con l’estratto di Shiitake erano più magri dei topi nel gruppo di controllo. Se un organismo assume più energia di quanta ne consuma, la variabile data dall’assunzione dell’estratto di Shiitake sembra avere un effetto inibitorio sull’aumento delle riserve adipose.
L’integrazione di Shiitake ha anche migliorato i parametri della salute dei topo. L’esame ematico effettuato dai ricercatori ha evidenziato una diminuzione del LDL, dei Trigliceridi, un miglioramento della HDL:LDL ratio e un miglioramento della glicemia.
Come sappiamo, l’obesità può portare anche a problemi epatici. La supplementazione con estratto di Shiitake ha ridotto il tasso di fegato grasso e ha ridotto le concentrazioni degli enzimi epatici AST, ALT e CGT nel sangue degli animali esaminati. I lettori di questo sito dovrebbero sapere che AST, ALT e CGT sono marker per valutare il livello di stress epatico e possibili danni all’organo.
I ricercatori ipotizzano che la figura postata qui in alto possa spiegare, almeno in parte e schematicamente, l’effetto antiobesogeno dato dall’uso dell’estratto di Shiitake. La supplementazione con questo estratto ha ridotto le concentrazioni di proteine infiammatorie come l’interleuchina-1-alfa e l’interleuchina-1-beta. Queste proteine infiammatorie riducono la capacità dei muscoli di assorbire il glucosio.
TGF-alfa
Un’altra osservazione interessante legata a questo studio è il fatto che si sia verificato un aumento delle concentrazioni di TGF–α nel sangue dei topi trattati con l’estratto di Shiitake. Nei soggetti obesi l’attività del TGF–α diminuisce. Vi sono prove che fanno pensare ad una correlazione tra una ridotta espressione del TGF–α e l’aumento dei depositi adiposi.
Sicuramente, questo potenziale effetto, semmai risultasse nell’uomo in grado significativo, potrebbe essere un vantaggio non indifferente per i BodyBuilder intenti a contenere l’aumento della percentuale di grasso corporeo durante un regime ipercalorico.
L’Adiponectina (denominata anche come GBP-28, apM1, AdipoQ, Acrp30 e Liponectine[1]) è un ormone proteico coinvolto nella regolazione dei livelli di glucosio e nella scomposizione degli acidi grassi. Nell’uomo è codificato dal gene ADIPOQ ed è prodotto nel tessuto adiposo. [2]
Nel 1995, l’Adiponectina è stata inizialmente osservata esercitare una azione di differenziazione degli adipociti 3T3-L1 (Scherer PE et al.).[3] Essa venne infatti scoperta nel 1995 da quattro diversi gruppi di ricerca che lavoravano indipendentemente l’uno dall’altro.[4] Nel 1996 è stato osservato che nei topi l’Adiponectina è la trascrizione dell’mRNA più espressa negli adipociti.[2] Nel 2007, l’Adiponectina è stata osservata essere una trascrizione altamente espressa nei preadipociti [5] (precursori delle cellule adipose) che si differenziano in adipociti.[5][6]
L’omologo umano è stato identificato come la trascrizione più abbondante nel tessuto adiposo. Contrariamente alle aspettative, nonostante venga sintetizzata nel tessuto adiposo, l’Adiponectina risultata essere sottoregolata nei soggetti obesi.[7][8][9] Questa sottoregolazione non è stata completamente spiegata. Il gene è stato localizzato nel cromosoma 3q27, una regione evidenziata per avere una certa influenza nella suscettibilità genetica al diabete di tipo 2 e all’obesità. Il trattamento con diverse forme di Adiponectina è stato in grado di migliorare il controllo dell’Insulina, della glicemia e dei livelli di Trigliceridi nei modelli murini.
Il gene è stato studiato per le variabili che predispongono al diabete di tipo 2.[9][5][10][11][12][13]Diversi polimorfismi a singolo nucleotide nella regione codificante e nella sequenza circostante sono stati identificati in diverse popolazioni, con prevalenze, gradi di associazione e forza di effetto variabili sul diabete di tipo 2. La Berberina, un alcaloide isochinolina, ha dimostrato di aumentare l’espressione del Adiponectina [14], il che spiega, in parte, i suoi effetti benefici sui disturbi metabolici. Topi nutriti con gli acidi grassi Omega-3 Acido Eicosapentaenoico (EPA) e Acido Docosaesaenoico (DHA) hanno mostrato un aumento dell’Adiponectina plasmatica.[15] Anche la Curcumina, la Capsaicina, il Gingerolo e le Catechine hanno mostrato di poter aumentare l’espressione dell’Adiponectina.[16]
La distribuzione filogenetica include l’espressione negli uccelli [17] e nei pesci.[18]
L’Adiponectina è un polipeptide (proteina) composto da una catena di 247 aminoacidi. Esistono quattro regioni distinte nella struttura molecolare della Adiponectina. La prima regione è formata da una breve sequenza di segnali che interessa l’ormone nella secrezione all’esterno della cellula; la seconda regione varia tra le specie; la terza è una regione composta di 65 aminoacidi con somiglianza con le proteine del Collagene; l’ultima è un dominio globale. Nel complesso questa proteina mostra una somiglianza con i fattori del complemento 1Q (C1Q). Tuttavia, quando è stata determinata la struttura tridimensionale della regione globulare, è stata osservata una sorprendente somiglianza con il TNFα (Fattore di Necrosi Tumorale α), nonostante sequenze proteiche non correlate.[19]
Come già accennato, l’Adiponectina è un ormone proteico che modula una serie di processi metabolici, tra i quali la regolazione del glucosio e l’ossidazione degli acidi grassi.[7] L’Adiponectina viene secreta dal tessuto adiposo (e anche dalla placenta in gravidanza [20]) nel flusso ematico ed è molto abbondante nel plasma rispetto a molti altri ormoni. Molti studi hanno scoperto che l’Adiponectina è inversamente correlata all’indice di massa corporea nelle popolazioni di pazienti.[8] Tuttavia, una meta analisi non è stata in grado di confermare questa associazione negli adulti sani.[21] Le concentrazioni circolanti di Adiponectina aumentano durante la restrizione calorica negli animali e nell’uomo, come nei pazienti con anoressia nervosa. Questa osservazione è senza dubbio sorprendente, dato che l’Adiponectina è sintetizzata nel tessuto adiposo. Tuttavia, un recente studio suggerisce che il tessuto adiposo nel midollo osseo, che aumenta durante la restrizione calorica, contribuisce alle elevate concentrazioni ematiche di Adiponectina in tale contesto.[22]
Mitocondrio
Topi transgenici con elevati livelli di Adiponectina mostrano una ridotta differenziazione degli adipociti e un aumento del dispendio energetico associato al disaccoppiamento mitocondriale.[23] L’ormone in questione svolge un ruolo nella soppressione delle alterazioni metaboliche correlate al diabete di tipo 2, [8] obesità, aterosclerosi, [7] epatopatia adiposa non alcolica (NAFLD) e un fattore di rischio indipendente per la sindrome metabolica.[24] L’Adiponectina in associazione con la Leptina ha dimostrato di invertire completamente lo stato di insulino-resistenza nei topi.[25]
L’Adiponectina viene secreta nel flusso sanguigno dove rappresenta circa lo 0,01% di tutte le proteine plasmatiche ad un dosaggio di circa 5-10μg/mL (mg/L). Negli adulti, le concentrazioni plasmatiche sono più elevate nelle femmine rispetto ai maschi e sono ridotte nei diabetici rispetto ai non diabetici. La riduzione del peso ne aumenta significativamente le concentrazioni circolanti.[26]
L’Adiponectina si auto-associa automaticamente in strutture più grandi. Inizialmente, tre molecole di Adiponectina si legano insieme per formare un omotrimero. I trimeri continuano ad auto-associarsi e formano esameri o dodecameri. Come la concentrazione plasmatica, i livelli relativi delle strutture di ordine superiore sono sessualmente dimorfici, dove le femmine hanno livelli maggiori delle forme ad alto peso molecolare. Studi recenti hanno dimostrato che la forma ad alto peso molecolare può essere quella biologicamente più attiva per quanto riguarda l’omeostasi del glucosio.[27] L’Adiponectina ad alto peso molecolare è stata inoltre osservata associarsi ad un minor rischio di diabete con un’entità di associazione simile all’Adiponectina totale.[28] Tuttavia, si è scoperto che la malattia coronarica è associata positivamente con l’Adiponectina ad alto peso molecolare, ma non con l’Adiponectina a basso peso molecolare.[29]
Leptina
L’Adiponectina esercita alcuni dei suoi effetti di riduzione del peso attraverso il cervello. Questa azione è simile a quella esercitata dalla Leptina[9]; l’Adiponectina e la Leptina possono agire sinergicamente.
L’Adiponectina non si lega ad un solo recettore. Finora, sono stati identificati due recettori con l’omologia dei recettori accoppiati a proteine G (GPCRs) e un recettore simile alla famiglia delle Caderine [30][31]:
Recettore 1 dell’adiponectina (AdipoR1)
Recettore 2 dell’adiponectina (AdipoR2)
T-caderina – CDH13
Questi recettori hanno specificità tissutali distinte all’interno del corpo e hanno affinità diverse con le varie forme di Adiponectina. I recettori influenzano a valle l’AMP chinasi, un importante punto di controllo del tasso metabolico cellulare. L’espressione dei recettori è correlata ai livelli di Insulina, cosa osservata nei modelli murini diabetici, in particolare nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo.[32][33] Nel 2016 l’Università di Tokyo annunciò l’avvio di un’indagine, spinta dalle richieste fatte in modo anonimo, sulla presunta falsificazione dei dati rilasciati sull’identificazione dei recettori AdipoR1 e AdipoR2.[34]
Sia AdipoR1 che AdipoR2 sono orientati in modo opposto ai GPCR nella membrana (cioè N-terminale citoplasmatico, C-terminale extracellulare) e non si legano alle proteine G di memnrana.[35] I recettori dell’Adiponectina, AdipoR1 e AdipoR2, fungono da recettori per l’Adiponectina globulare e integrale e mediano un aumento delle attività dei ligandi AMPK e PPAR-α, nonché l’ossidazione degli acidi grassi e l’assorbimento del glucosio per attività dell’Adiponectina.[35][36]
Gli effetti legati all’attività della Adiponectina sono:
Regolazione del flusso del glucosio ematico
riduzione della gluconeogenesi
Aumento dell’assorbimento cellulare di glucosio [7][9][11]
2. Catabolismo lipidico
β-ossidazione [9]
Liberazione dei trigliceridi [9]
3. Protezione dalla disfunzione endoteliale (aspetto importante della formazione aterosclerotica)
4. Miglioramento della Sensibilità all’Insulina
5. Perdita di peso
6. Controllo del metabolismo energetico [11]
7. Sovraregolazione delle proteine disaccoppianti (UCP) [23]
8. Riduzione del TNF-α.
Regolazione dell’Adiponectina:
L’obesità è associata alla riduzione dell’Adiponectina.
L’esatto meccanismo di regolazione non è noto, ma l’Adiponectina potrebbe essere regolata da meccanismi post-trasduzionali nelle cellule.[37]
Bassi livelli di Adiponectina sono associati all’ADHD negli adulti.[38]
È stato scoperto che i livelli di Adiponectina sono aumentati nei pazienti con artrite reumatoide che rispondono alla terapia con DMARD o inibitori del TNF. [39]
Il rilascio di Adiponectina indotto dall’esercizio fisico ha aumentato la crescita dell’ippocampo e ha portato a risposte antidepressive nei topi.[40]
Un basso livello di Adiponectina è un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di:
Sindrome metabolica [24]
Diabete mellito di tipo II [9] [5] [10] [12] [13]
I livelli circolanti di Adiponectina possono essere indirettamente aumentati attraverso modifiche dello stile di vita e alcuni farmaci come le Statine.[41]
Esistono dei composti sintetici che interagiscono con i recettori dell’Adiponectina come l’AdipoRon, un agonista selettivo, attivo per via orale, del recettore 1 (AdipoR1) e del recettore 2 dell’Adiponectina (AdipoR2) (Kd = 1,8 μM e 3,1 μM, rispettivamente).[42] L’Università di Tokyo che nel 2016 annunciò l’avvio dell’indagine, spinta dalle richieste fatte in modo anonimo, sulla presunta falsificazione dei dati rilasciati sull’identificazione dei recettori AdipoR1 e AdipoR2, si è occupata anche di questo agonista selettivo dei recettori per l’Adiponectina.[34]
È stato riportato che estratti di patate dolci aumentano i livelli di Adiponectina portando, quindi, ad un miglioramento del controllo glicemico nell’uomo.[43] Tuttavia, una review sistematica ha concluso che non vi sono prove sufficienti a supporto del consumo di patate dolci per il trattamento del diabete mellito di tipo 2.[44]
L’Adiponectina è apparentemente in grado di attraversare la barriera emato-encefalica [45] sebbene esistano dati contrastanti a riguardo.[46] L’Adiponectina ha un’emivita di 2,5 ore nell’uomo.[47]
AdipoRon
Ho accennato pocanzi al AdipoRon, agonista sintetico dei recettori per l’Adiponectina AdipoR1 e AdipoR2.[42] Analogamente all’Adiponectina, questa molecola attiva la segnalazione del AMPK e del PPARα causando un miglioramento dell’insulino sensibilità, della dislipidemia e dell’intolleranza al glucosio nei topi db/db (un modello animale per il diabete di tipo II e l’obesità).[42][48] Inoltre, è stato scoperto che AdipoRon estende la durata della vita dei topi db/db alimentati con una dieta ricca di grassi, oltre a migliorarne la resistenza all’esercizio fisico. [42] [48] [49] La molecola è stata scoperta da ricercatori giapponesi nel 2013 attraverso la revisione della letteratura disponibile, ed è il primo agonista dei recettori per l’Adiponectina attivo per via orale ad essere stato identificato.[42][48]
Gli agonisti del recettore dell’Adiponectina come AdipoRon hanno attirato l’interesse come potenziali terapie per il trattamento dell’obesità, del diabete, delle malattie cardiovascolari, della malattia del fegato grasso non alcolico e una panoplia di altre condizioni.[42][48] Inoltre, è stato recentemente chiarito il ruolo di mediatore dell’adiponectina sugli effetti antidepressivi, ansiolitici e neurogenici indottidall’esercizio fisico. [50][51][52] E’ interessante notare che l’aumento dei livelli di Adiponectina dopo una seduta di esercizio fisico moderato perdura per per 24 a 72 ore. La disregolazione dell’espressione dell’Adiponectina è stata anche implicata nella patologia dei disturbi dell’umore, dei disturbi d’ansia, dei disturbi alimentari, dei disturbi neurodegenerativi e di vari altri disturbi neuropsichiatrici.[53] Inoltre, è stato determinato che l’esercizio fisico migliora la resistenza all’insulina attraverso l’attivazione del recettore AdipoR1.[54] Come tale, gli agonisti del recettore dell’Adiponectina sono un target terapeutico molto interessante per il trattamento di una varietà di condizioni diverse.[42][48][52][53] Inoltre, è stato suggerito che potrebbero essere potenzialmente utilizzati come sostituti dell’esercizio fisico per ottenere benefici simili sulla salute fisica e mentale.[42][48][52][55] Questa opzione è da prendere in considerazione solo e soltanto in quei soggetti impossibilitati a svolgere attività fisica “significativa”.
A causa delle limitazioni nella produzione di Adiponectina biologicamente attiva, gli agonisti degli AdipoRs adiponectino-mimetici sono stati suggeriti come possibili alternative per espandere l’opportunità di sviluppare agenti anti-diabetici. Basandosi sulla struttura cristallina del AdipoR1, i ricercatori hanno progettato gli agonisti dei peptidi del AdipoR1 usando la simulazione del docking proteico-peptidico analizzando le loro capacità di legame per i recettori e le funzioni biologiche attraverso la risonanza plasmonica di superficie (SPR) e l’analisi biologica. Sono stati selezionati e confermati tre peptidi candidati, BHD1028, BHD43 e BHD44 per attivare le vie del segnale mediate da AdipoR1. Al fine di migliorare la stabilità e la solubilità degli agonisti peptidici, i peptidi candidati sono stati PEGilati. Il BHD1028 PEGilato ha mostrato la sua attività biologica alla concentrazione nano-molare e potrebbe essere un potenziale agente terapeutico per il trattamento del diabete. Inoltre, l’SPR e tecniche di screening virtuale possono essere potenzialmente applicate ad altri processi di screening di farmaci peptidici per le proteine del recettore di membrana.[56]
Arctiina
Altre forme di agonisti dei recettori per l’Adiponectina sono i peptidi ADP-355 e ADP-399 [57], i non-peptidi (–)-Arctigenina, Arctiina, Gramina, Matairesinol, Deoxyschizandrina, Parthenolide,
Syringing e Taxifoliol.[58] L’ADP-400 è invece un peptide antagonista del recettore per l’Adiponectina. [58]
Date le potenzialità legate all’Adiponectina, l’uso e la diffusione degli agonisti sintetici dei suoi recettori nella sottocultura del BodyBuilding, in particolare, e del Fitness, in generale, non sarà di certo un evento improbabile nel prossimo futuro. In attesa di questo evento, diversi divulgatori d’oltre oceano, più o meno autorevoli, hanno incominciato a cercare soluzioni OTC per incrementare la sintesi endogena di Adipnectina.
Come già detto all’inizio di questo articolo, i ricercatori hanno scoperto che l’assunzione di grassi monoinsaturi presenti nell’olio di pesce (vedi in particolare EPA e DHA), causa un aumento dei livelli di Adiponectina dal 14 al 60%. Anche l’olio di Cartamo ha dimostrato di aumentare la sintesi di Adiponectina. .[15] Per tale ragione alcuni dei prima citati divulgatori consiglia di assumere 4g/die di CLA derivato dall’olio di Cartamo.
I ricercatori hanno scoperto che l’aggiunta di adeguate quantità di fibre alla dieta causa un aumento dei livelli di Adiponectina tra il 60 ed il 115%.[59] Un motivo in più, se mai ce ne fosse stato il bisogno, di consumare la quantità raccomandata di fibre pari a 30g al giorno.[60]
Il consumo regolare di caffè è stato correlato ad un aumento dei livelli di Adiponectina e ad una riduzione delle citochine pro-infiammatorie, che potrebbero aiutare ad aumentare la perdita di peso e ridurre i livelli di infiammazione.[61]
Curcumina
Si è ipotizzato, con ben poche evidenze, che la Curcumina aumenti la sintesi di Adiponectina. La funzione verrebbe esercitata tramite la riduzione della sintesi di sostanza pro-infiammatorie nell’adipocita con un conseguente aumento della sintesi di Adiponectina.[62]
Resveratrolo
Uno studio del 2011, condotto da ricercatori dell’Università del Texas Health Science Center di San Antonio, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, ha riportato che il Resveratrolo stimola anche l’espressione dell’Adiponectina. [63]
Secondo uno studio del 2012, completato all’Università di Gerusalemme, una dieta sperimentale con carboidrati consumata principalmente a cena, piuttosto che durante il giorno, sembra avvantaggiare le persone che soffrono di obesità grave e morbosa. Questa dieta sembra influenzare i modelli di secrezione degli ormoni responsabili della fame e della sazietà, nonché gli ormoni associati alla sindrome metabolica, compreso un aumento della produzione di Adiponectina durante il giorno.[64]
In uno studio pubblicato sull’Iranian Journal of Diabetes and Obesity nel giugno 2012, è stato osservato un aumento significativo dei livelli di Adiponectina nei soggetti che avevano assunto 50mg di Zinco rispetto a al gruppo di controllo.[65] Un altro studio simile, nel quale soggetti diabetici di tipo II sono stati trattati con 30mg/die di Zinco, è stato osservato un aumento significativo della Adiponectina rispetto al basale ma non rispetto al gruppo di controllo (e il 53.3% presentava un insufficienza di Zinco al basale).[66]
Cianidina 3-glucoside
L’antocianina C3G (cianadina 3-glucoside), se assunta in quantità sufficiente in forma di integratore, sembra migliorare la composizione corporea. Si è sempre pensato che questo effetto fosse causato dagli effetti positivi diretti C3G sulla sensibilità all’Insulina. Infatti, è noto da tempo che la C3G possa aumentare la lipolisi stimolando la sintesi di adipocitochine (proteine di segnalazione cellulare) come l’Adiponectina, che regola appunto i livelli di glucosio e l’ossidazione degli acidi grassi. Recentemente sono emerse alcune ricerche secondo cui questo aumento di Adiponectina mediato dal C3G potrebbe anche contribuire alla crescita muscolare.[67]
L’Agaricus blazei Murrill è un fungo medicinale non facente parte della Medicina Tradizionale Cinese (MTC), ma che ha suscitato grande interessa per la sua peculiare capacità di regolare la risposta immunitaria, ha mostrato di poter aumentare la concentrazione plasmatica di Adiponectina del 20%.[68] Favorendo un aumento di concentrazione di Adiponectina, l’AbM risulterebbe molto utile in caso di steatosi epatica non alcolica e insulino-resistenza. C’è da considerare però il fatto che, nello studio citato, l’estratto del AbM era somministrata in concomitanza con Metformina e Gliclazide.
Non fatevi troppe illusioni però, è molto probabile che se vi metteste a provare una o più di queste ipotetiche metodiche per aumentare i livelli di Adiponetina, il risultato che ne ricavereste, nel migliore delle ipotesi, non sarebbe da attribuirsi ad altra cosa se non al effetto placebo. Ma, da ricercatore quale sono, non biasimerò di certo chi vorrà testare e cercare di comprendere, eliminando per quanto possibile le variabili in gioco, se l’effetto ottenuto (se se ne è ottenuto qualcuno) è attribuibile ad un incremento dell’Adiponectina… risultante comunque molto speculativa vista la mancanza per la stragrande maggioranza delle persone di un laboratorio ove sottoporsi a periodiche analisi al fine di quantificare i (se mai ci fossero) incrementi del peptide in questione.
Maeda K, Okubo K, Shimomura I, Funahashi T, Matsuzawa Y, Matsubara K (April 1996). “cDNA cloning and expression of a novel adipose specific collagen-like factor, apM1 (AdiPose Most abundant Gene transcript 1)”. Biochemical and Biophysical Research Communications. 221 (2): 286–9. doi:10.1006/bbrc.1996.0587
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La bassa biodisponibilità degli AAS orali non metilati in C-17 ha sempre significato una limitazione nella loro applicazione. Dosaggi efficaci e costi correlati hanno di norma spinto atleti e Preparatori verso altre scelte qualora l’uso di un composto orale fosse stato preso in considerazione. Ovviamente, questa limitazione non interessa soltanto questa categoria di AAS orali, e infatti molti altri farmaci potrebbero vedere il loro impiego a dosaggi nettamente più contenuti se somministrati con apposite pratiche. Tuttavia, e dai tempi delle pubblicazioni di Dan Duchaine, scomparso ormai da diciotto anni, che siamo a conoscenza di alcuni metodi per aumentare la biodisponibilità di queste molecole. Queste pratiche di somministrazione vanno ben oltre il semplice, e a volte poco fruttuoso, consiglio di “assumerle a stomaco vuoto”. Senza dubbio, l’utilizzo del DMSO in gel o in soluzione con acqua (50/50) come veicolo per migliorare la biodisponibilità dei farmaci è il più interessante in quanto permette anche una applicazione topica in zone specifiche del corpo, aree nelle quali si trovano accumuli adiposi particolarmente ostici da ridurre e che possono essere trattati in modo più specifico usando determinate molecole veicolate attraverso il DMSO.
Dopo le dovute note introduttive ed aver catturato l’attenzione di alcuni di voi, posso proseguire con la mia disamina riguardante l’argomento chiave di quest’articolo, il DMSO come mezzo per migliorare la biodisponibilità dei farmaci e le loro possibilità applicative.
Ma cos’è il DMSO?
Il Dimetilsolfossido (DMSO), noto anche come Metilsolfossido o Sulfinilbis(metano), è un composto organico appartenente alla categoria dei solfossidi, si tratta di un composto organosulfuro con formula (CH3) 2SO. A temperatura ambiente si presenta come un liquido incolore e inodore particolarmente igroscopico. Sebbene nella sua forma pura sia effettivamente privo di odore, campioni impuri di Dimetilsolfossido odorano fortemente di Dimetilsolfuro. Il DMSO è un solvente aprotico, miscibile con una vasta gamma di solventi, fra cui alcoli, eteri, chetoni, clorurati e aromatici. È inoltre miscibile in tutte le proporzioni con l’acqua. Essendo quindi un solvente aprotico polare, il DMSO scioglie sia i composti polari che quelli non polari. Il DMSO possiede una particolare e insolita proprietà di far percepire un sapore simile all’aglio agli individui la cui pelle entra in contatto con esso.(1)
Il Dimetilsolfossido è un sotto-prodotto della lavorazione della carta, frequentemente usato come solvente in chimica organica: in particolare il Dimetilsolfossido è un solvente particolarmente indicato per alchilazioni SN2. Per esempio è possibile alchilare l’indolo o i fenoli con alte rese utilizzando idrossido di potassio (KOH) come base.
Gli atomi di idrogeno metilici del DMSO presentano un debole carattere acido (pKa= 35) a causa dell’effetto stabilizzante degli anioni del gruppo solfossido.
Il Dimetilsolfossido è stato scoperto nel 1867, tuttavia non venne utilizzato commercialmente fino al termine della Seconda guerra mondiale. In aggiunta ai suoi utilizzi come solvente, sia in chimica organica, sia per applicazioni industriali (chimica dei polimeri, farmaci, prodotti agrochimici), il Dimetilsolfossido è anche un eccellente agente per la rimozione delle vernici da legno e da metallo, caratterizzato da un vantaggio in termini di sicurezza rispetto ad altre sostanze come il Nitrometano e il Diclorometano.
Il DMSO è utilizzato come ossidante nelle reazioni di ossidazione di Swern e nell’ossidazione di Pfitzner-Moffatt.
Il DMSO può anche essere impiegato come agente di lavaggio nell’industria elettronica e, nella sua forma deuterata (DMSO-d6), è un comune solvente utilizzato nelle analisi NMR, grazie alla sua capacità di dissolvere un gran numero di sostanze e alla bassa interferenza dei suoi segnali. (AV)
Il ricorso in campo medico al DMSO risale almeno al 1963 quando una squadra di ricercatori della “Scuola di Medicina dell’Università dell’Oregon” diretta da Stanley Jacob scoprì che tale sostanza era in grado di penetrare in profondità sotto la pelle e altre membrane senza danneggiarle, trasportando altre molecole all’interno del sistema biologico. Il Dimetilsolfossido viene quindi utilizzato per l’applicazione topica di prodotti farmaceutici, accanto ai suoi usi come analgesico locale, anti-infiammatorio ed antiossidante.
Quindi, il compianto Dan Duchaine non scoprì nulla di nuovo ma ebbe quella giusta dose di intuitività in grado di fargli sperimentare combinazioni “artigianali” tra farmaci orali, ridotti in polvere, con bassa biodisponibilità e una soluzione di DMSO e acqua (rapporto 1:1) per applicazioni topiche, soprattutto in quelle zone con depositi adiposi ostici da ridurre.
Adesso abbiamo appurato che il DMSO è un solvente naturale con l’interessante capacità di agire come trasportatore transdermico in modo estremamente efficace. Ma fatta questa constatazione, come dosare correttamente i componenti di questo mix per applicazioni topiche?
DMSO nella pratica
Come accennato precedentemente, per prima cosa il DMSO (al 99,9%) va diluito con acqua in soluzione 50/50 dal momento che il Dimetilsolfossido puro sarebbe troppo irritante per la pelle. È importante utilizzare DMSO farmaceutico (puro) e non di tipo industriale, che avrà una buona dose di impurità. Il quantitativo di DMSO deve essere calcolato in base al quantitativo di principio attivo (addizionato alle compresse) che si vuole utilizzare. Il rapporto tra DMSO e compresse/mg di AAS è di 1ml ogni 10mg. Un semplice e rapido esempio può essere fatto con il Metenolone Acetato: la dose per somministrazione topica efficace risulta essere di 20-25mg. Una volta sbriciolate finemente le compresse contenti tale dosaggio si miscelano con la soluzione DMSO/Acqua composta da 2ml di Dimetilsolfossido e 2ml d’acqua. Una volta miscelata la polvere e la soluzione DMSO/Acqua essa va applicata nella zona desiderata (es. zona ombelicale). Dal momento che si tratta di una soluzione ben poco densa, è utile applicare una pellicola in modo da evitare dispersioni del preparato applicato. In fine, l’applicazione va tenuta per circa quaranta minuti, onde garantire un ottimale assorbimento del principio attivo. Questo trattamento viene generalmente eseguito da una a tre volte al giorno in base anche al numero delle aree da trattare. In alternativa alla soluzione con acqua è possibile utilizzata il DMSO in gel, ma è generalmente più difficile da reperire.
Riassunto pratico della procedura:
Miscelare il DMSO con acqua in rapporto 1:1 (es. 2ml/2ml)
Sbriciolare un quantitativo di compresse mantenendo un rapporto mg/ml di DMSO pari a 1ml ogni 10mg.
Una volta sbriciolate finemente le compresse miscelarle con la soluzione DMSO/Acqua.
Aspirare la miscela ottenuta con una siringa e applicare il contenuto direttamente sulla superfice cutanea della zona da trattare applicando una pellicola per impedire alla soluzione di disperdersi dall’area di applicazione.
Per il trattamento delle adiposità localizzate con AAS miscelati alla soluzione di DMSO, oltre al Metenolone Acetato viene utilizzato il Mesterolone ed il Trenbolone Acetato (in polvere). Alcuni hanno realizzato dei mix topici rassomiglianti al Helios contenenti Clenbuterolo, Chetotifene, Yohimbina e Triiodotironina (T3). Oltre a questo tipo di applicazione, la soluzione con DMSO è stata usata semplicemente per aumentare la biodisponibilità di alcuni AAS non metilati in C-17 come, ad esempio, il Furazabol (noto anche come Androfurazanolo).
Vi sono alcuni effetti avversi derivanti dall’uso del DMSO. Dal momento che il Dimetilsolfossido è un trasportatore molto efficaci capace di veicolare attraverso la pelle qualsiasi struttura con un peso molecolare abbastanza ridotto, gli utilizzatori devono essere cauti e premurarsi di pulire a fondo la l’epidermide che verrà a contatto con la soluzione prima dell’applicazione, e prestare particolare attenzione a ciò che entrerà in contatto con quella specifica area nelle ore immediatamente successive. Alcuni utilizzatori tengono la zona protetta con una pellicola in modo da proteggere la pelle da eventuali contaminanti. Gli utilizzatori di DMSO segnalano frequentemente effetti collaterali minori come prurito o bruciore da eruzione cutanee nel sito di applicazione, spesso dipendenti dalla scorretta diluizione del DMSO con l’acqua. Pat Arnold una volta aveva suggerito la possibilità di diluire il DMSO con circa il 5-10% di isopropile . L’alcol agisce come un carrier similmente al DMSO, ma evapora rapidamente dopo l’applicazione lasciando sulla pelle una lieve patina, dovuta al minor dosaggio necessario, di DMSO. Per quelli molto sensibili al Dimetilsolfossido, questa miscela può consentire un ridotto tasso di irritazione o, comunque, un grado di questa decisamente più contenuto proprio per la minore quantità di DMSO necessaria.
Acido Desossicolico
In conclusione, questa pratica può risultare vantaggiosa nel trattamento delle adiposità localizzate, sebbene esistano soluzioni iniettabili per mesoterapia con un grado di efficacia maggiore (vedi, per esempio, l’Acido Desossicolico iniettabile).
Per il miglioramento della biodisponibilità degli AAS orali, oltre all’assunzione di Naringina o Caffeina, è possibile miscelare le compresse in polvere con dell’olio MCT in modo da veicolarne l’assorbimento attraverso i vasi linfatici intestinali così come avviene per il Testosterone Undecanoato orale (Andriol). E su questo punto è utile aprire una parentesi.
La questione dell’assunzione di AAS orali in concomitanza con pasti a contenuto lipidico significativo e loro biodisponibilità è tanto semplice da trattare quanto soggetta a variabili che definirei di “vantaggio”. In passato citai spesso quanto riportato sul “Anabolic Steroids and Sports Volume II” (2), sul quale veniva riportato come l’assunzione di un AAS per via orale con un pasto poteva determinare una riduzione della su biodisponibilità a causa della natura liposolubile degli ormoni steroidei, che permette ad una parte del farmaco di sciogliersi con i grassi alimentari non digeriti, riducendo il suo assorbimento dal tratto gastrointestinale. Ad una attenta analisi della questione emerge che la possibilità che ciò avvenga in percentuali significative è legata alla quantità totale dei grassi nel pasto e che se questi non sono presenti in quantità elevate la loro presenza può favorire l’assorbimento degli AAS attraverso i vasi linfatici intestinali baipassando la deattivazione epatica di primo passaggio. Ovviamente, la percentuale di AAS che ipoteticamente potrebbe essere soggetta ad una celere espulsione per via dei grassi non digeriti è con tutta probabilità quanto meno discutibile. Esiste un interessante studio del 2016 (3) nel quale neonati operati per cardiopatia congenita e divisi in tre coorti da cinque soggetti sono stati sottoposti a trattamento post-operatorio con Oxandrolone. Ad un gruppo è stato somministrato il farmaco attraverso una soluzione acquosa 0,1 mg / kg / giorno, ad un altro attraverso una soluzione acquosa 0,2 mg / kg / giorno mentre al terzo gruppo è stato somministrato in una soluzione a base di olio di Trigliceride a Catena Media (MCT ) 0,1 mg / kg / giorno. Il gruppo trattato con la soluzione Oxandrolone+MCT ha mostrato il più basso calo di peso per età suggerendo una migliore biodisponibilità di questa preparazione.
Per conclude questa breve parentesi, si potrebbe affermare che gli AAS metilati in C-17 assunti con una quota di lipidi di circa il 20% o più la composizione del pasto potrebbero venire ad una certa loro percentuale assorbiti a livello dei vasi linfatici intestinali sgravando in modo parziale il loro impatto sul fegato, almeno per quanto riguarda i processi di de-attivazione di primo passaggio da parte del parenchima epatico. Ricordatevi, però, che la molecola verrà comunque processata a livello epatico causando stress a quest’organo. Per quanto riguarda gli AAS non metilati, è palese che il vantaggio sul incremento della loro biodisponibilità per via di questa pratica sia di interesse maggiore.
Gabriel Bellizzi
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Anabolic Steroids and Sports Volume II. James E. Wright. Sports Science Consultants, Natick, MA 1982.
Degli effetti del GABA sul miglioramento del sonno e l’aumento del rilascio dell’Ormone della Crescita ne ho già parlato in passato, specificando anche la possibilità, con l’uso di questa molecola sul lungo termine e in specie a dosaggi elevati, di poter sperimentare stati di dipendenza simili a quelli riscontrati con l’uso di benzodiazepine. Un altro svantaggio del GABA risiede nella sua ridotta capacità di passare attraverso la barriera emato-encefalica, cosa che ne riduce l’effetto complessivo. Nel 2002, i ricercatori dell’Università di Madras (India) hanno pubblicato uno studio svolto su animali che mostra come la L-Arginina aumenti il passaggio del GABA attraverso la barriera emato-encefalica.(1)
I ricercatori hanno utilizzato per il loro sperimentato dei ratti. Hanno somministrato direttamente L-Arginina e GABA nell’Intestino tenue degli animali presi in esame. In una certa misura, questa forma di somministrazione “mima” quella orale.
Sia la somministrazione di L-Arginina che di GABA hanno portato ad un aumento delle concentrazioni di GABA nel cervello dei ratti. L’aggiunta combinata di L-Arginina e GABA, tuttavia, ha causato un aumento ancora maggiore della concentrazione cerebrale di GABA.
L-NAME
Come è ben noto, la L-Arginina è un precursore dell’Ossido Nitrico [NO]. L’estere metilico N(gamma)-nitro-L-arginina [L-NAME], un derivato dell’Arginina, blocca la conversione del L-Arginina in Ossido Nitrico. La somministrazione di L-NAME assicurava che la L-Arginina non aumentasse il passaggio del GABA attraverso la barriera emato-encefalica.
I ricercatori concludono dicendo che il loro studio mostra l’effetto della L-Arginina sul aumento della permeabilità della barriera emato-encefalica al GABA e che L-NAME inibisce completamente tale effetto. I ricercatori ipotizzano che questi effetti siano mediati dall’Ossido Nitrico e che questo contribuisca ad aumentare la permeabilità della barriera emato-encefalica al GABA.
E’ facile dedurre dai risultati dello studio qui riportato che la co-somministrazione di GABA e L-Arginina potrebbe permettere di utilizzare dosi inferiori di GABA garantendone comunque l’effetto ricercato. Sebbene in commercio sia presente il Phenibut, derivato del GABA, il quale presenta delle modifiche strutturali che ne migliorano il passaggio attraverso la barriera emato-encefalica, la sua ridotta reperibilità rispetto al GABA rende il possibile vantaggio dato dalla co-somministrazione di quest’ultimo con L-Arginina di particolare interesse.
Da quanto emerso attraverso uno studio effettuato dai ricercatori dell’Università di Ahvaz Jundishapur (Iran), l’assunzione giornaliera di Propoli da parte di soggetti con diabete di tipo II causa un miglioramento della loro sensibilità all’Insulina e una consequenziale riduzione dei livelli ematici del peptide. I ricercatori hanno affermato che l’effetto è così forte che l’integrazione con Propoli in questi soggetti può ridurre significativamente il rischio di complicanze legate alla patologia.(1)
Per l’esperimento, della durata di 90 giorni, i ricercatori hanno reclutato un centinaio di soggetti con diabete di tipo II. I soggetti non erano trattati con una terapia ipoglicemizzante a base di Insulina e non erano allergici ai prodotti dell’apicoltura.
A metà dei soggetti presi in esame sono state fatte assumere giornalmente capsule contenenti un placebo. All’altra metà dei soggetti è stata fatta assumere una capsula contenete 500mg di Propoli due volte al giorno (1g di Propoli/die).
I ricercatori hanno usato un prodotto dell’azienda iraniana Shahdine Golha.
La supplementazione con il Propoli ha migliorato la sensibilità all’Insulina dei soggetti trattati.
Nel gruppo sperimentale, i livelli ematici di Insulina sono diminuiti del 45%. Inoltre, dopo che questi soggetti avevano assunto Propoli per 90 giorni, la concentrazione di emoglobina glicata A1c (HbA1c) era diminuita dello 0,98%. Come certamente saprete, emoglobina glicata A1c è una forma di emoglobina usata principalmente per identificare la concentrazione plasmatica media del glucosio per un lungo periodo di tempo. Viene prodotta in una reazione non-enzimatica a seguito dell’esposizione della normale emoglobina al glucosio plasmatico.
Tale diminuzione riduce il rischio di complicanze legate al diabete del 21%.
Nei soggetti del gruppo placebo, l’eGFR (acronimo di “Estimated Glomerular Filtration Rate”; velocità di filtrazione glomerulare) era diminuito del 20,7%. L’eGFR indica il tasso di filtrazione glomerulare, cioè la velocità con cui il sangue viene filtrato (e ripulito) dai reni. Ciò significa che la funzione renale dei soggetti del gruppo placebo era peggiorata. Questa diminuzione era assente nei soggetti che avevano assunto il Propoli.
Secondo i ricercatori, un possibile meccanismo di azione del Propoli è la riduzione della produzione di fattori infiammatori come il TNF-alfa e – in misura minore – del CRP.
E’ interessante notare come molecole che hanno mostrato un certo effetto sulla insulino sensibilità , come l’Acido Clorogenico, posseggano struttura chimica simile a quella Estere Feniletilico dell’Acido Caffeico [CAPE], probabilmente la sostanza bioattiva più importante del Propoli. È molto probabile che queste sostanze condividano il meccanismo d’azione.
Tra gli innumerevoli benefici attribuiti al consumo di tè verde, benefici legati soprattutto all’azione delle catechine ivi contenute, e che sono noti ai più, sembra esserci anche quello di avere un effetto saziante se consumato durante i pasti. Questa peculiarità è stata riportata dai ricercatori della Lund University (Svezia) sul Nutrition Journal.(1)
Da tempo si è al corrente del fatto che il tè verde presenti al suo interno sostanze che migliorano l’effetto dell’Insulina. Studi epidemiologici hanno mostrato che bere tè verde può ridurre la probabilità di sviluppare il diabete di tipo II. (2) L’estratto di tè verde ha il potenziale di aumentare la sensibilità all’Insulina nell’uomo.(3) Esistono anche molti studi in vitro i quali però lasciano spazio più che altro a speculazioni.(4)
Tornando allo studio citato all’inizio dell’articolo, i ricercatori della Lund University, curiosi di constatare se avessero potuto ottenere gli stessi effetti facendo bere alle persone una tazza di tè verde ai pasti, hanno reclutato per il loro esperimento 15 soggetti di età compresa tra i 22 e i 35 anni. I ricercatori speravano che l’assunzione di tè verde potesse causare un incremento ridotto dei livelli ematici di glucosio e Insulina dopo un pasto.
I ricercatori hanno dato ai soggetti presi in esame un pasto composto da pane bianco e tacchino in due occasioni. In un’occasione i soggetti hanno bevuto una tazza di acqua calda insieme al loro pasto, nell’altra hanno bevuto una tazza di tè verde da 300 ml. I ricercatori hanno usato il tè Sencha, una qualità di tè verde giapponese.
La preparazione dell’infuso è stata fatta con 9 g di foglie secche di sencha messe in infusione per tre minuti in 300 ml di acqua a 85 gradi. Il risultato è stato una soluzione contenente 80mg di Caffeina, 26mg di Epicatechina [EC], 90mg di Epicatechina Gallato [ECG] e 32mg di Epigallocatechina Gallato [EGCG].
L’effetto del consumo di tè verde non ha portato a variazioni statisticamente significative dei livelli ematici post prandiali di glucosio e Insulina.
Ad essere statisticamente significativo è stato l’effetto saziante che i soggetti hanno sperimentato dopo il pasto nel quale veniva bevuto il tè verde. Questa sensazione era significativamente più alta novanta minuti dopo il pasto. Inoltre, i soggetti hanno riportato di sentirsi più “pieni” dopo aver bevuto tè verde con il pasto.
I ricercatori, nella loro esposizione, hanno concluso che è necessario un più ampio studio che utilizzi soggetti in sovrappeso per poter confermare i risultati ottenuti.
Il dubbio che i soggetti dell’esperimento fossero stati condizionati nella loro risposta psicofisica dalla consapevolezza di consumare tè verde, e dal riempimento gastrico accentuato dai 300ml di liquido ingerito, rimane.
Da quanto emerso da uno studio sudcoreano pubblicato nel 2016, l’assunzione giornaliera di 3g di ginseng rosso porterebbe ad aumento del numero dei mitocondri cellulari.(1)
I ricercatori sudcoreani della Yonsei University College of Medicine hanno reclutando per l’esperimento una sessantina di uomini tra i 30 ed i 70 anni.
Gli uomini reclutati non erano in piena fisiologia dal momento che la loro condizione di salute presentava uno stato pre-diabetico. Buona parte di loro era in sovrappeso o obesa, con alti livelli di glucosio, ipertensione e dislipidemia. Non erano comunque sotto trattamento farmacologico.
I ricercatori hanno diviso i soggetti in due gruppi. Ad un primo gruppo sono state somministrate capsule contenenti un placebo mentre ad un secondo gruppo sono state somministrate capsule contenenti estratto di ginseng rosso. La durata della somministrazione in entrambi i gruppi è stata di quattro settimane.
Il ginseng rosso o ginseng coreano è diverso dal ginseng normale o bianco. Il Ginseng rosso contiene maggiori quantità di saponina (principio attivo ginsenosidi) rispetto al ginseng bianco. Il ginseng rosso di 6 anni contiene un totale di 34 specie di saponina (ginsenoside), il ginseng cinese 15 specie, il ginseng americano 14 specie, il ginseng giapponese ne contiene 8 specie.
I ricercatori hanno somministrato ai soggetti del gruppo “ginseng” 3g di estratto di ginseng rosso al giorno divisi in due assunzioni.
Per lo svolgimento dello studio i ricercatori hanno utilizzato un prodotto della Korean Ginseng Corporation. Eh si, questa azienda ha sponsorizzato il presente studio.
La supplementazione con ginseng rosso ha portato ad un leggero aumento dei livelli di Testosterone e IGF-1 e ad una lieve diminuzione della Cortisolo:DHEA ratio.
Inoltre, si è osservato un marcato aumento nel numero dei mitocondri cellulari nei soggetti trattati con ginseng rosso. Ciò, ovviamente, si traduce in una migliore capacità metabolica cellulare.
Questi dati fanno pensare ad una serie di benefici ottenibili con una supplementazione di ginseng rosso che vanno da un miglioramento generale della salute ad un maggiore dispendio energetico con consequenziale facilitazione nella perdita di massa grassa.
Eppure, nei soggetti trattati, la supplementazione di ginseng rosso non ha portato ad una diminuzione dei livelli di glucosio o ad una diminuzione della percentuale di grasso. E, forse, ciò è dovuto principalmente ad una attuale conoscenza limitata sulle sostanze contenute nel ginseng e al modo di trarne un reale beneficio terapeutico.
Gli scienziati che lavorano per la NASA stanno studiando, tra le altre cose, dei trattamenti per impedire, o quanto meno limitare marcatamente, il catabolismo muscolare degli astronauti durante le lunghe permanenze nello spazio. Un antiossidante sintetico denominato Eukarion-134 potrebbe essere un valido candidato per tale scopo.
Lo studio che qui vado a trattare nello specifico è stato pubblicato sul Experimental Physiology nel 2018.(1)
I ricercatori, per realizzare il loro studio, hanno utilizzato dei ratti alcuni dei quali sono stati impossibilitati ad usare le zampe posteriori al fine di determinare l’effetto di 7 giorni di inattività sul muscolo Soleo. Ad alcuni di questi ratti è stata somministrata una dose di Eukarion-134 [HU + EUK-134], mentre ad altri no [HU].
I ratti del gruppo di controllo sono stati in grado di usare le zampe posteriori durante lo studio [CON].
L’Eukarion-134 è una molecola sintetica che imita l’azione degli enzimi antiossidanti Superossido Dismutasi e Catalasi.
Al momento non si conoscono preparati destinati ad uso umano e, per quanto ne so, l’Eukarion-134 sotto forma di integratore o farmaco non è ancora stato testato sull’uomo. Tuttavia, ci sono alcuni cosmetici sul mercato contenenti piccole quantità di Eukarion-134 che dovrebbero ritardare l’invecchiamento della pelle.
Ritornando allo studio qui trattato, la somministrazione di Eukarion-134, durante il periodo di 7 giorni di inattività, non hanno portato alla degradazione del Soleo.
L’inattività motoria ha inibito l’attività delle molecole di segnalazione anabolica, come mostrato nel grafico sopra riportato. Ciò non è accaduto, o è accaduto in misura minore, se gli animali venivano trattati con l’Eukarion-134.
L’inattività fisica ha aumentato l’attività dei radicali liberi, l’analisi del tessuto muscolare degli animali presi in esame lo ha mostrato chiaramente. Questi radicali liberi hanno causato una alterazione delle vie di segnalazione anabolica. L’Eukarion-134 ha ridotto l’attività dei radicali liberi, permettendo che nel miocita l’attività anabolica non venisse arrestata o ridotta significativamente.
Gli animali dello studio sono stati trattati con 3mg di Eukarion-134 per Kg al giorno. I ricercatori hanno iniettato la molecola direttamente nell’intestino tenue dei ratti. L’equivalente umano di questa dose ammonterebbe a circa 30-40mg al giorno. Una dose orale, facendo i dovuti rapporti di biodispnibilità, sarebbe di circa 60-80mg al giorno.
Ma, come già detto, la possibilità di reperire il composto per poter effettuare anche solo dei piccoli test è al quanto rara. I risultati riportati da questo studio rimarranno quindi delle semplici, seppur interessanti, constatazioni sull’effetto dell’Eukarion-134 sui ratti in attesa di studi sull’uomo.