I regimi alimentari “low-carb”, nelle loro varianti, sono largamente utilizzati per la perdita di peso, nonostante non presentino veri e propri vantaggi, a parità di calorie, sulla perdita di massa grassa in rapporto a regimi ipocalorici “low-fat”. Infatti, i loro vantaggi si “limitano” all’impatto psicologico dovuto alla repentina perdita di peso (acqua e glicogeno) delle prime settimane e al senso di sazietà legato all’introito proteico e al livello dei chetoni (dipendente dal tipo di “low carb”). Le varianti di questa tipologia di regime alimentare più applicate sono quelle a schema ciclico, che consistono, come ben sappiamo, nell’alternanza di giorni a ridotta assunzione glucidica e medio/alta assunzione lipidica e proteica con giorni ad alta assunzione glucidica e ridotta/moderata assunzione lipidica e proteica. Questa tipologia di regime “low carb” risulta il più tollerabile sul lungo periodo. Secondo un recente studio di piccole dimensioni svolto da ricercatori canadesi della University of British Columbia un marcato aumento del consumo glucidico (e il creare repentini picchi glicemici) dopo un periodo a ridotto consumo (ma anche in condizioni generali) può causare danni ai vasi sanguinei.(1)
I ricercatori hanno fatto seguire a 9 soggetti sani di sesso maschile una dieta a basso contenuto di carboidrati per 2 settimane. La composizione schematizzata del piano nutrizionale è mostrata qui di seguito.
Precedentemente e immediatamente dopo l’applicazione del regime alimentare “low carb”, agli studenti è stato fatto assumere un quantitativo di 75g di glucosio disciolti in acqua. I ricercatori hanno quindi determinato l’effetto dell’assunzione del glucosio sulla flessibilità dei vasi sanguigni. Sono state determinate le concentrazione ematiche di specifici marker indicativi del danno ai vasi sanguigni.
Dopo l’assunzione del glucosio, la flessibilità dei vasi sanguigni era diminuita. Tale condizione risultò in entrambe le assunzioni di glucosio. Il regime a basso contenuto di carboidrati ha incrementato la riduzione dell’elasticità dei vasi sanguigni dopo picco glicemico in misura similare a quanto riscontrato dopo la medesima procedura prima dell’inizio del regime “low carb”.
Questo effetto non era però così allarmante. Nonostante ciò, l’effetto dell’assunzione di glucosio durante la dieta a basso contenuto di carboidrati sulla concentrazione delle microparticelle endoteliali CD31+ CD42b- e CD62E+ è stato comunque motivo di preoccupazione per i ricercatori.
In un comunicato stampa dello scorso mese (2) Cody Durrer, uno dei principali autori dello studio qui in breve esposto, ha affermato che l’intento della ricerca era quello di osservare e valutare le risposte fisiologiche alla reintroduzione di carboidrati dopo un periodo di marcata restrizione di questi ultimi. Poiché la ridotta tolleranza al glucosio e i picchi della glicemia ematica (in cronico) sono noti per essere associati ad un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, per i ricercatori aveva senso esaminare quello che succede nei vasi sanguigni in risposta ad un picco glicemico.
Cody Durrer continua dicendo che inizialmente lui ed i suoi colleghi cercavano variazioni nella risposta infiammatoria e nella tolleranza glucidica. Ma ciò che hanno scoperto è stato un aumento dei biomarker ematici indicativi di un danno endoteliale vascolare successivo al picco glicemico.
Jonathan Little, un altro dei ricercatori che hanno realizzato lo studio, ha affermato che nonostante la giovane età e il buono stato di salute dei soggetti osservati, quando si esaminava lo stato di salute dei loro vasi sanguigni dopo aver consumato i 75g di glucosio, i risultati sembravano provenire da qualcuno con una salute cardiovascolare compromessa.
La preoccupazione dei ricercatori riguarda il fatto che molte delle persone che seguono una dieta “Keto”, che sia per la perdita di peso, per trattare il diabete di tipo II o qualche altra ragione legata alla salute, potrebbero annullare alcuni degli effetti positivi sul sistema cardiovascolare se assumono improvvisamente (all’interno di un pasto) quantitativi glucidici elevati. Soprattutto se questi soggetti hanno un rischio più elevato per le malattie cardiovascolari.
Il ricercatore conclude dicendo che i dati raccolti suggeriscono che una dieta chetogenica non è un regime da seguire per sei giorni alla settimana e da un giorno alimentarmente “fuori controllo”.
Nonostante lo studio abbia un design piuttosto limitante, i dati che fornisce possono risultare particolarmente interessanti anche in ambito culturistico, in specie nei periodi, come il pre-contest, dove il “carico/scarico” glucidico è un abitudine (o dove l’assunzione glucidica è particolarmente alta, come in “Off Season”) e negli utilizzatori di AAS. Dovrebbe essere infatti risaputo come questi ultimi subiscano un effetto negativo a livello dell’endotelio vascolare dato da livelli sovra fisiologici di AAS (grado dose e tempo dipendente). Una sconsiderata gestione del piano alimentare anche per ciò che concerne il carico glucidico porterebbe con molta probabilità ad un ulteriore peggioramento delle condizioni cardiovascolari in tali soggetti.
Come ben sappiamo, livelli bassi di Testosterone sono un fattore connesso alla riduzione della densità ossea e della sintesi di Collagene. Parimenti, siamo a conoscenza del fatto che dosi sovrafisiologiche di Testosterone possono causare un aumento della sistesi proteica di circa 50 volte, a seconda della dose e del tempo di esposizione, e della densità ossea. Ciò che spesso non si considera, sia per ignoranza che per via di una limitata comprensione del fattore in essere, è il fatto che dosaggi sovra fisiologici di Testosterone (>180mg/week) portano ad una riduzione della sintesi di Collagene ≥ 50% – percentuale variabile in relazione alla dose e alle risposte genotipiche e che può raggiungere l’80%, vale a dire un tasso di sintesi di Collagene di un soggetto anziano. Le fibre dei tendini sono composte per 3 parti da fibre di Collagene e da 1 parte di Elastina. Dato ciò, in condizione di esposizione a dosi sovrafisiologiche di Testosterone, le probabilità di comparsa di lesioni tendinee è maggiore dal momento che si viene a creare una condizione nella quale, facendo un esempio banale ma che rende perfettamente l’idea, l’atleta presenta considerevoli masse muscolari le cui estremità sono connesse a tendini di ridotte dimensioni e resistenza. Questo fattore, quindi, non è dovuto semplicemente ad una variazione del tasso ipertrofico dei due tessuti durante l’uso di AAS o alla marcata soppressione dei livelli estrogenici. Come spesso accade, anche in questo caso ci troviamo di fronte alla presenza di molteplici fattori.
Un AAS che può causare problemi connessi a quanto appena riportato, anche se con dinamica “paradossale”, è lo Stanozololo. Questo AAS aumenta la sintesi del Collagene ma non ne migliora la resistenza, rendendo i tendini soggetti comunque a possibili lesioni. In pratica, lo Stanozololo, aumenta marcatamente la sintesi di Collagene, ma ironicamente riduce l’integrità del cross-linking (formazione di legami incrociati) dello stesso, rendendo così il tendine molto più debole.
Nandrolone, Boldenone, Oxandrolone e Metenolone causano un aumento della sintesi di Collagene senza comprometterne la cross-linking diminuendo la possibilità di infortuni, la comparsa di infiammazioni tendinee e il dolore articolare:
Nandrolone
Nandrolone (privo di esterificazione): la somministrazione di 1,25-2mg/kg a settimana (circa 100-160mg per un uomo di 80Kg) può portare ad un aumento dei livelli di Procollagene III del 270% in un lasso di tempo pari a 2-3 settimane. Il Procollagene III è un indicatore primario utilizzato per determinare il tasso di sintesi di Collagene.
Boldenone
Boldenone (privo di esterificazione): la somministrazione di 2,25mg/Kg a settimana (circa 180mg per un uomo di 80Kg) può portare ad un aumento dei livelli di Procollagene III di circa il 340% in un lasso di tempo pari a 2-3 settimane.
Metenolone
Metenolone (privo di esterificazione): la somministrazione di 3,6mg/kg a settimana (circa 288mg per un uomo di 80Kg) può aumentare la sintesi di Collagene di circa il 180% in un lasso di tempo pari a 2-3 settimane.
Oxandrolone
Oxandrolone: la somministrazione di 0,5mg/Kg al giorno (circa 40mg per un uomo di 80Kg) può aumentare la sintesi di Collagene di circa il ≥50% in un lasso di tempo molto breve (1 settimana circa).
*Esistono oltre un centinaio di studi che documentano l’efficacia del Oxandrolone nel trattamento di pazienti che necessitano di rapidi aumenti nella sintesi di Collagene per migliorare i processi guaritivi.
Altri composti non-steroidei possono ovviamente essere aggiunti al fine di migliorare la risposta preventiva sugli infortuni muscolo-tendinei-articolari:
hGH
hGH: la somministrazione di 6UI/die causa un aumento del tasso di deposizione di Collagene di circa il 250% in strutture di Collagene danneggiate. Questo effetto ha portato all’osservazione di un aumento della forza biomeccanica dei tendini danneggiati trattati con il peptide per via dell’aumento del deposito di Collagene nelle strutture tendinee. L’effetto del hGH sull’aumento della sintesi di Collagene è dose dipendente: ciò significa che la percentuale sopraesposta aumenta in relazione all’aumento della dose e che si può comunque ottenere un ottimo tasso di sintesi (media del +125%) con 3UI/die o 2UI/die (media del +83,3%) con una sensibile riduzione della comparsa di neuropatie (vedi sindrome del Tunnel Carpale).
TB-500
TB-500: in seguito a stime di rapporto con il potenziale di deposito di Collagene dato dall’uso di hGH, la somministrazione di 4-5mg di Timosina beta–4a settimana (per sei settimane seguite da una dose di mantenimento pari a 2-2,5mg ogni quattro settimane) potrebbe causare un aumento del tasso di deposito di Collagene di circa il 350-400%.
In conclusione, da quanto riportato, si può ben capire come l’inserimento dei suddetti composti possa garantire una considerevole prevenzione di infortuni muscolo-tendinei-articolari. Ovviamente, la scelta del composto e dei suoi dosaggi non dovrebbe tenere consto solo del suo potenziale sulla sintesi/deposito di Collagene. L’uso dell’Oxandrolone, per ovvi motivi legati al suo impatto a livello epatico e sui lipidi ematici, è una molecola che dovrebbe comunque essere usata in un lasso di tempo limitato (con una indicazione di massimo 8 settimane). Il Nandrolone, soprattutto a causa dei suoi effetti a livello cerebrale/SNC, sebbene le dosi utili sono tutto sommato contenute, non è ben tollerato da tutti e, consequenzialmente, il suo uso è pienamente funzionale solo su un numero limitato di persone. Il Boldenone, invece, risulta essere superiore al Nandrolone sotto l’aspetto della tollerabilità alla molecola ma, per via della sua azione sulla eritropoiesi di grado maggiore (sebbene non del tutto chiarito nell’uomo) rispetto ad altri AAS, il suo uso potrebbe essere problematico per i soggetti ipersensibili a questo effetto. Il Metenolone, nonostante presenti un tasso d’efficacia inferiore rispetto al Nandrolone e al Boldenone, risulta generalmente il composto con il più alto tasso di tollerabilità rispetto alle precedenti molecole, tollerabilità che ne permette un uso di basse su tempi medio-lunghi. L’uso del hGH, come detto in precedenza, può essere gestito con buoni risultati sotto l’aspetto del deposito di Collagene anche con un dosaggio giornaliero di 2-3UI; i problemi principali con il suo uso sono di natura economica dal momento che il dosaggio contenuto garantisce una limitata possibilità di comparsa di effetti collaterali legati alla molecola. In fine, il TB-500 sembrerebbe avere il potenziale maggiore sul deposito di Collagene sebbene le percentuali esposte siano piuttosto teoriche e la reperibilità della molecola non sia così semplice.
PS:E’ ovvio che i fattori quali livelli di infiammazione sistemica/riduzione delle concentrazioni di Cortisolo e livelli estrogenici devono essere comunque monitorati per far si che la prevenzione di infortuni e/o stati infiammatori tendineo-articolari sia “completa”.
Nel febbraio di quest’anno ho scritto un articolo nel quale riportavo alcuni studi svolti sul SARM GSK20881078. Tra gli studi citati ve ne era uno svolto sull’uomo (studio di fase 1).(1) Attualmente i ricercatori della GlaxoSmithKline stanno proseguendo i test sugli esseri umani. Un recente studio che ha preso in esame gli effetti del GSK20881078 sugli esseri umani, il quale verrà a breve pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha mostrato, per la prima volta, il potenziale anabolizzante di questo SARM nell’uomo.(2) Tuttavia, lo studio suggerisce anche che il GSK20881078 potrebbe avere degli effetti collaterali non di entità non trascurabile.
I ricercatori hanno somministrato il GSK20881078 a 100 persone sane di età superiore ai 50 per 8 settimane. I soggetti presi in esame erano sia maschi che femmine e sono stati trattati con dosaggi differenti.
I soggetti di sesso maschile ai quali è stata somministrata una dose di 4mg/die di GSK20881078 hanno avuto un guadagno di 1,5Kg di massa magra in 8 settimane di trattamento. Le donne alle quali è stata somministrata una dose di 1,5mg/die di GSK2088078, hanno avuto un guadagnato 3Kg di massa magra.
Ovviamente, come per altri SARM o PED in generale, l’uso del GSK20881078 può portare ad alcuni effetti collaterali. Il livello di Testosterone totale negli uomini si è ridotto di due terzi durante il trattamento con il SARM. Due settimane dopo la fine del trattamento, i livelli di Testosterone non erano ancora tornati in soglia basale (nei range della fascia d’età dei soggetti esaminati).
Anche gli effetti sui livelli di HDL non sono da sottovalutare. Infatti, si è verificato un calo del 30-45% delle lipoproteine ad alta densità.
Gli effetti collaterali di cui sopra sono stati rilevati a metà del periodo di somministrazione. Quale entità abbiano gli effetti collaterali dopo 8 settimane di trattamento non è dato saperlo dal momento che i ricercatori, stranamente e con non pochi dubbi, non lo hanno verificato. Per risolvere questo “mistero d’omissione”, o ,per lo meno, per farsi un idea plausibile sulle reali cause di ciò, basta conoscere i finanziatori dello studio (GlaxoSmithKline). Un altro dato mancante è rappresentato dall’impatto della molecola a livello epatico.
I ricercatori concludono affermando che è il trattamento con GSK20881078 può portare ad aumenti potenzialmente significativi a livello clinico della massa magra con una risposta differenziale tra i sessi. I cambiamenti nella chimica clinica sono stati coerenti con quelli precedentemente segnalati per altri SARM ed erano relativamente miti, monitorabili e reversibili. Ulteriori ricerche sono ora in programma per analizzare gli effetti di aumento della massa magra osservati.
Sebbene le risposte nell’aumento della massa magra possano sembrare promettenti ai dosaggi indicati, specie negli individui di sesso femminile, l’entità dei possibili effetti collaterali rende questo composto decisamente meno interessante per gli atleti; specie se paragonato con altri PED attualmente in uso ed il loro rapporto tra possibili benefici ed effetti collaterali. Un calo del HDL del 35-40% con una dose di 4mg/die per 4 settimane non lascia spazio a rosee previsioni sull’effetto riscontrabile con l’uso di dosi più elevate per lo stesso lasso di tempo o per periodi più lunghi.
Una nota interessante, che va oltre lo studio che qui è stato trattato, è data dal fatto che l’antidoping ha già sviluppato un test per la rilevazione del GSK20881078.(3)
A seguito di uno studio in vitro svolto da tossicologi dell’Università di Basilea e pubblicato nel 2012, è emerso che il Fluoxymesterone può causare un aumento significativo dei livelli di Cortisolo. (1) Argomento da me accennato nell’articolo dedicato alla molecola in questione.
Come risaputo, il Fluoxymesterone è un AAS orale metilato in C-17, con un potere androgeno elevato e non soggetto all’enzima aromatasi.
Nonostante quest’ultimo punto, la casa produttrice (Pfizer) riporta nelle avvertenze del prodotto una caratteristica che non ci si aspetta da una molecola priva di attività estrogenica diretta e indiretta: “L’edema, con o senza insufficienza cardiaca congestizia, può essere una seria complicanza in pazienti con preesistente malattia cardiaca, renale o epatica”.(2)
I ricercatori hanno scoperto il meccanismo attraverso il quale il Fluoxymesterone può causare edema e quindi aggravare ulteriormente la sua influenza sulla salute del sistema cardiovascolare. Il Fluoxymesterone si lega all’enzima 11-beta-HSD2, enzima preposto alla conversione del Cortisolo in Cortisone (inattivo). Di conseguenza il gruppo 11-idrossile del Fluoxymesterone viene convertito in un gruppo 11-oxo. Poiché l’attività dell’11-beta-HSD2 subisce una riduzione, si osserva un aumento della concentrazione di Cortisolo.
I ricercatori hanno esteso la loro ricerca ad altri composti al fine di valutarne una possibile azione sui meccanismi di conversione del Cortisolo in Cortisone. L’esito è stata la scoperta della marcata attività inibitoria dell’11-beta-HSD2 da parte del Fluoxymesterone. Durante l’esperimento è stato constatato che il Fluoxymesterone esplica una potenza maggiore sull’alterazione dei livelli di Cortisolo dell’Acido Glicirretico, sostanza presente nella liquirizia che causa un aumentano della produzione endogena di corticosteroidi, attraverso l’inibizione degli enzimi 4 e 5-beta-reduttasi che inattivano gli steroidi.(3)
L’Oxymesterone – o 4-idrossi-17-metil-testosterone – e, in misura minore, l’Oxymetholone inibiscono l’11-beta-HSD2 quasi quanto il Fluoxymesterone.
I ricercatori hanno scoperto anche che il Fluoxymesterone non può interagire direttamente con i Recettori del Cortisolo. Ma, le concentrazioni aumentate di Cortisolo portano, ovviamente, ad un consequenziale aumento dell’attività di quest’ultimo.
Un eccesso di Cortisolo altera l’equilibrio elettrolitico data l’interazione dello steroide con i Recettori Mineralocorticoidi. Induce il corpo a trattenere più sodio e quindi aumenta la ritenzione idrica extracellulare. Ciò significa che la quantità di plasma nel sangue aumenta e di conseguenza aumenta la pressione sanguigna. Oltre a ciò, un livello elevato di Cortisolo ha un effetto restringente sui vasi sanguigni, cosa che, a sua volta, causa un aumento della pressione sanguigna. Infine, un livello elevato di Cortisolo rende i vasi sanguigni più suscettibili ai danni causati dall’accumulo di colesterolo nelle loro pareti.
Pertanto, gli AAS con azione inibitoria nei confronti dell’11-beta-HSD2, come il Fluoxymesterone, possono avere un azione avversa maggiore nel causare effetti cardiovascolari avversi.
Si è ipotizzata anche una differenza nell’impatto sull’11-beta-HSD2 e i livelli di Cortisolo tra assunzione orale e somministrazione per iniezione con maggiore influenza data da quest’ultima. La cosa potrebbe con molta probabilità essere legata alle modifiche che la farmacocinetica subisce con la somministrazione tramite iniezione rispetto alla classica somministrazione orale.
Per avere una visione d’insieme più completa riguardo al Fluoxymesterone vi rimando all’artico ad esso dedicato.
La supplementazione con estratto di semi d’uva sembra poter fornire una protezione a cuore e vasi sanguigni durante l’uso di AAS. Questa possibile azione è emersa da uno studio svolto su animali che i ricercatori dell’Università di Tanta (Egitto) hanno pubblicato sul Oxidative Medicine and Cellular Longevity.(1)
I ricercatori hanno svolto l’esperimento dividendo ratti da laboratorio maschi in 4 gruppi. Durante le otto settimane di durata dell’esperimento, i ricercatori non hanno dato alcuna sostanza attiva al primo gruppo di ratti [Controllo].
Procianidina C1 (membro della famiglia delle Proantocianidine presenti nei semi d’uva)
Il secondo gruppo di ratti ha ricevuto una dose consistente di un estratto di semi d’uva purificato due volte alla settimana tramite un sondino gastrico. Questo estratto, prodotto dalla Merck, conteneva Proantocianidine [GSPE]. Se i ratti fossero stati esseri umani, avrebbero ricevuto una dose media di 700mg di Estratto di semi d’uva due volte a settimana.
Il terzo gruppo di animali esaminati è stato trattato con un iniezione settimanale di Boldenone. Infine, Il quarto gruppo è stato trattato con un iniezione settimanale di Boldenone insieme alla supplementazione con estratto di semi d’uva.
I ratti trattati con Boldenone hanno sviluppato ipertrofia cardiaca. L’aggiunta dell’estratto di semi d’uva al trattamento con Boldenone ha annullato tale effetto.
La figura riportata di seguito mostra come il Boldenone ha indotto l’ipertrofia cardiaca. Se il ventricolo sinistro del cuore – la parte del muscolo cardiaco che pompa sangue ricco di ossigeno nel corpo – si era contratto, il sangue era ancora sotto un elevata pressione nei vasi sanguigni degli animali esaminati a cui era stato somministrato il Boldenone [Sinistra].
Questo indicava che il cuore era sottoposto ad un lavoro maggiore legato alla condizione ipertrofica. Ciò indicava anche che la salute dei vasi sanguigni non era ottimale.
Ancora una volta, l’estratto di semi d’uva ha annullato questo effetto.
Le figure sottostanti mostrano cosa è successo esattamente ai vasi sanguigni degli animali trattati. Il Boldenone aveva attivato gli enzimi NOX. Gli enzimi NOX producono radicali liberi. Le cellule immunitarie, ma anche le cellule che formano i vasi sanguigni, producono enzimi NOX. Questi enzimi sono utili quando il corpo sta combattendo degli agenti patogeni, ma se questi enzimi si attivano senza una buona ragione, possono causare rigidità dei vasi sanguigni e, di conseguenza, danneggiarli.
Il NOX2 è prodotto dalle cellule endoteliali nelle pareti dei vasi sanguigni, il NOX4 nel muscolo cardiaco.
I ricercatori concludono affermando che, queste nuove scoperte sull’attività antiossidante delle Proantocianidine contenute nell’estratto di semi d’uva dovrebbero servire come base per lo sviluppo di migliori strategie chemiopreventive o terapeutiche per la tossicità cardiaca indotta dal Boldenone.
E’ necessario però fare alcune precisazioni…
La dose di Boldenone usata dai ricercatori era tutto sommato contenuta: 5mg/Kg a settimana. Se questo non è un errore di battitura, l’equivalente umano della dose utilizzata dai ricercatori è di circa 70mg a settimana. Gli utilizzatori di AAS assumono dosi settimanali minime di 200-250mg dello steroide preso in esame, e alcuni arrivano anche al grammo. Ovviamente, insieme al Boldenone vengono generalmente somministrati altri AAS. Quest’ultimo punto riduce ulteriormente la validità protettiva del supplemento esaminato nel presente studio in un contesto di utilizzo di AAS a scopo dopante.
In conclusione, è assai improbabile che una supplementazione con estratto di semi d’uva possa fornire una protezione verso l’ipertrofia cardiaca o il danno endoteliale negli utilizzatori di AAS.
Con il termine Antiestrogeni ci si riferisce genericamente ad una classe di farmaci aventi azione diretta o indiretta sull’attività tissutale e/o concentrazione ematica degli estrogeni. Agiscono bloccando il recettore dell’estrogeno (ER) e/o riducendo o sopprimendo la sintesi estrogenica.(1)(2) Una recente categoria di agenti facenti parte di questa classe di farmaci, i SERD (Selective Estrogen Receptor Degrader), esplicano la loro azione antiestrogena degradando/sottoregolando il recettore dell’estrogeno. Gli Antiestrogeni sono una delle tre classi di farmaci antagonisti dell’ormone sessuale, insieme agli Antiandrogeni e agli Antiprogestinici.(3)
Largamente utilizzati in ambito sportivo, in special modo nell’ambiente culturistico, con il fine di controllare l’attività estrogenica durante l’uso di AAS aromatizzabili, o aventi attività estrogenica intrinseca, e durante la PCT con lo scopo aggiunto di stimolare la ripresa dell’HPTA, questi farmaci hanno un discreto carico di effetti collaterali tra i quali, quelli che destano maggior preoccupazione nell’atleta previdente, vi sono la dislipidemia (aumento dell’LDL, dei Trigliceridi, riduzione del HDL e alterazione delle loro ratio), l’atralgia (dolore articolare), il calo della libido/disfunzione erettile e l’affaticamento/letargia. Non sono di certo da meno le preoccupazioni legate all’alterazione dell’Asse GH/IGF-1 o la riduzione delle potenzialità di induzione ipertrofica di un ciclo in seguito ad una eccessiva soppressione dell’attività e/o delle concentrazioni estrogeniche. Ma esiste un’altra preoccupazione legata all’uso di composti antiestrogeni, ed è la possibilità che si verifichi un rebound estrogenico in seguito al l’oro uso. Purtroppo, la letteratura a disposizione è al quanto scarsa e poco chiara nella specifica del problema. E’ possibile, però, fare maggiore chiarezza sulla questione analizzando le caratteristiche dei composti antiestrogeni e il loro impatto, passando in rassegna tutti i componenti dell’addizione (Recettori Estrogeni e enzima Aromatasi). In questo articolo cercherò di esporre un ragionamento logico grazie al quale, seppur non avendo una risposta definitiva, sarà possibile avere un idea, la più concreta possibile, sul binomio antiestrogeni/rebound estrogenico.
Una analisi della questione…
Recettori dell’Estrogeno, SERM e “rebound estrogenico”
Un dimero della regione legame-ligando del ERa.
I Recettori degli Estrogeni (ER) sono un gruppo di proteine presenti all’interno delle cellule. Sono recettori attivati dall’ormone estrogeno (con maggiore attività del 17β-estradiolo).(4) Esistono due classi di ER: i Recettori degli Estrogeni nucleari (ERα e ERβ), che sono membri della famiglia dei recettori nucleari e dei recettori intracellulari, ed i Recettori degli Estrogeni di Membrana (MR) (GPER (GPR30), ER-X e Gq-mER), che sono per lo più recettori accoppiati alla proteina G. In questa sede ci si riferirà ai primi (ER).
Una volta attivato dall’estrogeno, l’ER è in grado di traslocare nel nucleo e legarsi al DNA per regolare l’attività di diversi geni (ciò significa che è un fattore di trascrizione del DNA). Tuttavia, ha anche funzioni aggiuntive indipendenti dal legame con il DNA.(5)
Poiché l’estrogeno è un ormone steroideo, può passare attraverso le membrane fosfolipidiche della cellula, e pertanto i recettori non hanno bisogno di essere legati alla membrana per potersi legare a loro volta con l’estrogeno.
L’estrogeno esplica la sua attività cellulare attraverso un azione Genomica e Non-Genomica.
• Genomica
In assenza di ormoni, i ER si trovano in gran parte nel citosol. Il legame dell’ormone al recettore innesca un numero di eventi che iniziano con la migrazione del recettore dal citosol nel nucleo, la dimerizzazione del recettore e il successivo legame del dimero del recettore a specifiche sequenze di DNA conosciute come elementi di risposta ormonale. Il complesso DNA / recettore quindi recluta altre proteine che sono responsabili della trascrizione del DNA a valle in mRNA e, infine, in una proteina la quale porta a dei cambiamenti nella funzione cellulare. I recettori degli estrogeni si trovano anche all’interno del nucleo della cellula, ed entrambi i sottotipi del recettore dell’estrogeno hanno un dominio di legame con il DNA e possono funzionare come fattori di trascrizione per regolare la produzione di proteine.
Il recettore interagisce anche con la proteina attivatore 1 e Sp-1 per promuovere la trascrizione, attraverso diversi coattivatori come il PELP-1.(6)
L’acetilazione diretta del recettore alfa dell’estrogeno ai residui della lisina nella regione cerniera mediante il p300 regola la transattivazione e la sensibilità ormonale.(7)
• Non-Genomica
Alcuni recettori per gli estrogeni sono presenti nelle membrana della superficie della cellula e possono essere rapidamente attivati dall’esposizione di questa agli estrogeni.(8)(9)
Inoltre, alcuni ER possono associarsi alle membrane cellulari legandole alla caveolina-1 e formarmando complessi con la proteine G, striatina, tirosina chinasi del recettore (es. EGFR e IGF-1) e tirosina chinasi non recettoriale (es. Src). (6)(8) Attraverso la striatina, alcuni di questi ER legati alla membrana possono portare a livelli aumentati di Ca2 + e ossido nitrico (NO).(10) Attraverso il recettore tirosin chinasi, i segnali vengono inviati al nucleo attraverso la via della proteina chinasi attivata dal mitogeno (MAPK / ERK) e la via del fosfoinositide 3-chinasi (Pl3K / AKT).(11) La glicogeno sintasi chinasi-3 (GSK) -3β inibisce la trascrizione dal ER nucleare inibendo la fosforilazione della serina 118 dell’ERa nucleare. La fosforilazione di GSK-3β rimuove il suo effetto inibitorio, e questo può essere ottenuto tramite il pathway PI3K / AKT e il pathway MAPK / ERK, tramite rsk.
Il 17β-estradiolo ha dimostrato di attivare il recettore GPR30 accoppiato alla proteina G.(12) Tuttavia, la localizzazione subcellulare e il ruolo di questo recettore sono ancora oggetto di controversie.(13)
ERb.
Gli estrogeni e gli ER sono implicati nel cancro al seno, nel carcinoma ovarico, nel cancro del colon, nel cancro alla prostata e nel cancro dell’endometrio. Il carcinoma del colon avanzato è associato a una perdita di ERβ, l’ER predominante nel tessuto del colon, e il tumore del colon è trattato con agonisti specifici per ERβ.(14)
Sappiamo che i recettori degli estrogeni sono sovraespressi in circa il 70% dei casi di cancro al seno, indicati come “ER-positivi”, e possono essere dimostrati in tali tessuti mediante l’immunoistochimica.(15) E’ ipotizzabile ,quindi, che gli atleti più sensibili agli effetti estrogenici presentino un espressione dei ER più elevata del normale, cosa che li porta a sviluppare con maggiore facilità effetti avversi dati da un eccesso dei livelli estrogenici e/o da un aumento della loro attività dato dalla cosomministrazione con progestinici (es. Nandrolone e Trenbolone).
I Modulatori Selettivi del Recettore dell’Estrogeno (SERM) sono composti antiestrogenici che agiscono a livello del ER. (16) Una caratteristica che distingue queste sostanze dagli agonisti e antagonisti ER puri (cioè agonisti completi e antagonisti silenti) è che la loro azione è diversa nei vari tessuti, garantendo in tal modo la possibilità di inibire selettivamente o stimolare l’azione estrogenica in diversi tessuti.
I SERM sono agonisti parziali competitivi del ER.(17) Tessuti diversi presentano differenti gradi di sensibilità all’attività degli estrogeni, pertanto i SERM esplicano effetti estrogenici o antiestrogeni a seconda del tessuto specifico con il quale interagiscono e della percentuale di attività intrinseca (IA) del composto in questione.(18) Un esempio di SERM con alta IA, e quindi di effetti prevalentemente estrogenici, è rappresentato dal Clorotrianisene, mentre un esempio di SERM con bassa IA, e quindi avente per lo più attività antiestrogenica, è rappresentato dall’Ethamoxytrifetolo. SERM come il Clomifene e il Tamoxifene, largamente utilizzati in ambito sportivo, sono considerabili come composti con valore IA intermedio essendo molecole con una azione bilanciata tra effetti estrogenici e antiestrogenici. Il Raloxifene è un SERM che presenta una azione antiestrogenica maggiore del Tamoxifene; entrambi hanno una attività estrogenica (sebbene differente) a livello osseo, ma il Raloxifene presenta una attività antiestrogenica nell’utero mentre il Tamoxifene ha un azione estrogenica nel tessuto dell’utero.(18)
Tamoxifene
Il Tamoxifene è un farmaco di prima linea per il trattamento del carcinoma mammario metastatico ER-positivo. È usato per la riduzione delle possibilità di sviluppo del cancro al seno nelle donne ad alto rischio, come trattamento adiuvante del nodo ascellare negativo e positivo, e nel carcinoma duttale in situ.(19)(20)
Il Tamoxifene è classificabile come un profarmaco, dal momento che la sua affinità per la proteina bersaglio (ER) è limitata. Il Tamoxifene viene metabolizzato nel fegato dall’isoforma del citocromo CYP2D6 e CYP3A4 in metaboliti attivi come l’Afimoxifene (4-idrossitamoxifene; 4-OHT) e l’Endoxifene (N-desmetil-4-idrossitamoxifene) (21) che presentano una affinità da 30 a 100 volte maggiore per il ER rispetto al Tamoxifene. (22) Questi metaboliti attivi competono con gli estrogeni per il legame con il recettore. Nel tessuto mammario, il 4-OHT agisce come un antagonista del ER in modo da inibire la trascrizione dei geni che reagiscono agli estrogeni. (23) Il Tamoxifene ha rispettivamente il 7% e il 6% dell’affinità dell’Estradiolo per il ERα e il ERβ, mentre il 4-OHT ha il 178% e il 338% dell’affinità dell’Estradiolo per il ERα e il ERβ.(24)
Afimoxifene (4-OHT)
Il 4-OHT si lega al ER, il complesso ER/Tamoxifene recluta altre proteine note come co-repressori e quindi si lega al DNA per modulare l’espressione genica. Alcune di queste proteine includono la NCoR e la SMRT. (25) La funzione del Tamoxifene può essere regolata da una serie di variabili diverse, compresi i fattori di crescita.(26) Il Tamoxifene deve bloccare le proteine del fattore di crescita come ErbB2/HER2 (27) perché è stato dimostrato che livelli elevati di ErbB2 si manifestano nei tumori resistenti al Tamoxifene.(28) Il Tamoxifene sembra richiedere una proteina PAX2 affinché possa esplicare il suo pieno effetto antitumorale. (27)(29) In presenza di un elevata espressione della PAX2, il complesso Tamoxifene/ER è in grado di sopprimere l’espressione della proteina pro-proliferativa del ERBB2. Al contrario, quando l’espressione del AIB-1 è superiore alla PAX2, il complesso di Tamoxifene/ER aumenta l’espressione del ERBB2 con conseguente stimolazione della crescita del cancro al seno. (27)(30)
Il 4-OHT si lega al ER in modo competitivo (rispetto all’estrogeno agonista) nelle cellule tumorali e in altri bersagli tissutali, producendo un complesso nucleare che riduce la sintesi del DNA e inibisce gli effetti degli estrogeni. È un agente non steroideo con potenti proprietà antiestrogeniche che competono con gli estrogeni per i siti di legame nel seno e in altri tessuti. Il Tamoxifene fa sì che le cellule rimangano nelle fasi G0 e G1 del ciclo cellulare. Poiché impedisce alle cellule (pre) cancerose di dividersi ma non provoca la morte cellulare, il Tamoxifene è citostatico piuttosto che citocida.
La letteratura scientifica riguardante l’attività del Tamoxifene è a dir poco complessa ed occorre prestare particolare attenzione ai dati disponibili per stabilire se il Tamoxifene, o il suo metabolita 4-idrossi, abbiano il maggiore impatto complessivo.
Norendoxifene
Il Norendoxifene (N, N-didesmetil-4-idrossitamoxifene), un altro metabolita attivo del Tamoxifene, è stato osservato agire come un potente inibitore dell’aromatasi competitivo (IC50 = 90 nM), cosa che a sua volta può amplificare l’attività antiestrogenica complessiva del Tamoxifene.(31)
Come già accennato in precedenza, e come molti sapranno, il Tamoxifene è largamente utilizzato in ambito sportivo, sia da solo che in abbinamento con altri SERM come il Clomifene ( in PCT) o con AI (“on-cycle” e/o in PCT). La sua applicazione all’interno di una preparazione che contempla l’uso di AAS aromatizzabili, alla luce di quanto esposto pocanzi, lo vede come agente preventivo o di trattamento dell’attività estrogenica a livello tissutale, in specie per quanto concerne l’attività estrogenica nel tessuto mammario al fine di evitare (o “tamponare”) la comparsa della ginecomastia. In un contesto PCT tale composto, oltre ad esercitare la funzione di regolazione dell’attività estrogenica appena esposta, agendo a livello ipotalamico stimola il rilascio di GnRH e, consequenzialmente, di LH ed FSH dall’Ipofisi che a loro volta stimoleranno la sintesi di Testosterone e la spermatogenesi.
Il suo utilizzo massivo e cronico è stato spesso collegato aneddoticamente a rebound estrogenico. Ora, conoscendo la complessità d’azione che questo composto (ed i suoi metaboliti) ha sul controllo dell’attività estrogenica, si può facilmente ipotizzare che un suo uso protratto (legato anche alla dose e, quindi, al suo impatto sulla attività estrogenica sistemica) possa innescare degli adattamenti reattivi con conseguente aumento dell’attività estrogenica attraverso l’incremento dei livelli serici di Estradiolo e dell’attività non-genomica dello steroide (ipotizzabile anche un aumento del numero dei ER). Nel corso degli anni sono state esposte diverse ipotesi volte a spiegare i meccanismi attraverso i quali un abuso di Tamoxifene possa portare ad un rebound estrogenico. Una di queste ipotesi venne riportata all’inizio del secolo dal compianto A.L. Rea il quale affermava che la causa andasse ricercata nell’aumento del rilascio di DHEA da parte delle ghiandole surrenali e dalla sua successiva (e aumentata) conversione in Androstenedione e, attraverso l’intervento dell’enzima aromatasi che lo converte in Estrone e la successiva azione del estradiolo 17beta-deidrogenasi, Estradiolo.(32) In breve, secondo questa teoria i processi innescati causerebbero l’instaurarsi di livelli di E2 cronicamente alti con conseguente impossibilità del SERM di esplicare la sua azione. Questa teoria seppur, in parte, possa dare una spiegazione logica dei possibili meccanismi implicati manca di alcuni tasselli. Il principale “tallone d’Achille” è rappresentato dai livelli di E2 che, una volta aumentati, diventano dei competitor recettoriali più aggressivi rispetto al 4-OHT (che ricordiamo avere il 178% dell’affinità dell’Estradiolo per il ERα). Ciò potrebbe avvenire in situazioni di calo delle concentrazioni di 4-OHT seguenti alla riduzione del dosaggio del farmaco o alla sua cessazione, quindi, in questo ultimo caso, esplicabili in crescendo nei 7-14 giorni successivi all’interruzione della somministrazione e con una durata indeterminata. Di conseguenza, sembra più plausibile che l’aumento delle concentrazioni di E2, durante l’uso del Tamoxifene, si affianchi ad un consequenziale incremento dell’attività Non-Genomica dell’ormone e da un aumentato numero di ER. Seguendo questa logica, una volta interrotto l’uso del Tamoxifene, queste condizioni tenderanno ad aggravarsi come gli effetti avversi a loro legati.
Consultando la bibliografia scientifica disponibile, non si trovano accenni su un possibile rebound estrogenico in seguito all’uso di Tamoxifene, ma si parla nello specifico di “resistenza al Tamoxifene” o “sottoregolazione degli ER”.(33)(34) Nel caso della “resistenza al Tamoxifene” sembra che l’aumento dell’espressione del gene MACROD2 porti ad una risposta negativa all’azione del SERM con conseguente proliferazione delle cellule cancerose estradiolo-dipendenti. La sovra espressione di tale gene sembra essere di base genetica anche se non si esclude una risposta di adattamento in seguito ad uso cronico del composto in questione.
Raloxifene
Il Raloxifene, un altro SERM discretamente utilizzato nella pratica sportiva, è un agonista-antagonista misto del ER.(35)(36)(37) Ha effetti estrogenici a livello osseo ed epatico con effetti antiestrogenici nei seni e nell’utero. Le azioni biologiche del Raloxifene sono quindi ampiamente mediate dal legame con i ER. Questo legame determina l’attivazione di percorsi estrogenici in alcuni tessuti (agonismo) e il blocco di questi in altri (antagonismo). Le sue caratteristiche d’azione similari a quelle del Tamoxifene, sembrano poter far pensare ad un medesimo e ipotetico meccanismo che possa portare ad un rebound estrogenico. Questa volta la letteratura scientifica sembra dare alcune conferme. In un caso studio (38), una paziente di 66 anni si è presentata con recidiva metastatica acuta estrogeno-positiva e progesterone-positiva, carcinoma mammario Her-2 / neu-negativo, lesioni ossee (colonna lombare, bacino), noduli polmonari, metastasi epatiche, antigene tumorale elevato 15 e enzimi epatici, dispepsia e diarrea. La paziente aveva assunto Raloxifene per circa 8 anni. Dopo la sospensione del farmaco, parametri e sintomi clinici sono migliorati rapidamente senza terapia oncologica o altre forme di trattamento. Tre mesi dopo la sospensione del Raloxifene, l’oncologo ha prescritto alla paziente l’uso della Capecitabina dato che non riteneva plausibile un effetto di rebound estrogenico (anti-estrogen withdrawal effect – AEWE). Tuttavia, la regressione duratura è stata più indicativa di un effetto rebound dato dal Raloxifene rispetto alla chemioterapia o ad altri interventi. In seguito la paziente si è mostrata asintomatica con un buono stato di prestazione. La regressione metastatica epatica è stata confermata, senza alcun trattamento oncologico somministrato negli ultimi 16 mesi e circa 23 mesi dopo il termine d’uso del Raloxifene. Questo caso evidenzia la necessità di esaminare pazienti con carcinoma mammario per la possibilità di un AEWE con l’uso di Raloxifene o con altri SERM . Ovviamente, il caso presentato non è molto comparabile, soprattutto per quanto riguarda i tempi di somministrazione, ad un BodyBuilder supplementato chimicamente nella “media” ma, ciò nonostante, ci offre un indizio sulla probabilità che si possa manifestare un rebound estrogenico con l’uso di SERM.
Enzima Aromatasi, Inibitori della Aromatasi e “rebound estrogenico”
Enzima Aromatasi
L’Enzima Aromatasi, chiamato anche estrogeno sintetasi o estrogeno sintasi, è un enzima responsabile del processo fondamentale della biosintesi degli Estrogeni. Denominato CYP19A1, questo enzima è un membro della superfamiglia del citocromo P450 (EC 1.14.14.1), che sono monoossigenasi che catalizzano molte reazioni coinvolte nella steroidogenesi. In particolare, l’Aromatasi è responsabile dell’aromatizzazione degli Androgeni in Estrogeni. L’enzima Aromatasi è sintetizzato in molti tessuti tra cui le gonadi (cellule della granulosa), cervello, tessuto adiposo, placenta, vasi sanguigni, pelle e ossa, nonché nei tessuti dell’endometriosi, dei fibromi uterini, del cancro al seno e del cancro dell’endometrio.
L’Aromatasi è localizzato nel reticolo endoplasmatico dove è regolato da promotori tissutali che sono a loro volta controllati da ormoni, citochine e altri fattori. Catalizza gli ultimi passaggi della biosintesi degli estrogeni dagli androgeni (in particolare, converte l’Androstenedione in Estrone e il Testosterone in Estradiolo). Queste fasi comprendono tre idrossilazioni successive del gruppo 19-metilico degli androgeni, seguite dall’eliminazione simultanea del gruppo metilico come formiato e aromatizzazione dell’anello A.
Reazioni generali per la conversione del Testosterone in Estradiolo catalizzata dall’Aromatasi. Gli Steroidi sono formati da quattro anelli fusi (A-B-C-D). L’Enzima Aromatasi converte l’anello “A” in uno stato aromatico.
Il gene esprime due varianti di trascrizione. (39) Nell’uomo, il gene CYP19, situato sul cromosoma 15q21.1, codifica per l’Enzima Aromatasi. (40) Il gene ha nove esoni codificanti e un numero di primi esoni non codificanti alternativi che regolano l’espressione specifica del tessuto. (41)
Il CYP19 è presente in un cordato precoce divergente, l’anfiosso cefalocordato (il Florida lancelet, Branchiostoma floridae), ma non nel precedente tunicato divergente Ciona intestinalis. Pertanto, gli evoluzionisti ipotizzano che il gene Aromatasi si sia evoluto precocemente nell’evoluzione dei cordati e non sembra essere presente negli invertebrati non-cordati (ad esempio insetti, molluschi, echinodermi, spugne, coralli). Tuttavia, gli Estrogeni possono essere sintetizzati in alcuni di questi organismi, attraverso altri percorsi sconosciuti.
I fattori noti che aumentano l’attività dell’Aromatasi includono l’età, l’obesità, l’Insulina, le gonadotropine e l’alcol. L’attività dell’Aromatasi risulta diminuita dalla Prolattina, dall’ormone anti-Mülleriano e dal glifosato , un comune erbicida.(42) L’attività dell’Aromatasi sembra essere migliorata in alcuni tessuti estrogeno-dipendenti come il tessuto mammario, nel carcinoma dell’endometrio, nell’endometriosi e nei fibromi uterini.
Gli Inibitori dell’Aromatasi (AI) sono una gruppo di farmaci usati nel trattamento del carcinoma mammario nelle donne in postmenopausa e nella ginecomastia negli uomini. Come i SERM, trovano un largo uso off-label in ambito sportivo durante la somministrazione di AAS aromatizzabili o durante la PCT. Possono anche essere utilizzati per la chemioprevenzione in donne ad alto rischio.
Esistono due tipi di Inibitori dell’Aromatasi approvati per il trattamento del carcinoma mammario e, quindi, diffusi anche per l’uso off-label: (43)
– Gli inibitori steroidei irreversibili, come l’Exemestano (nome commerciale Aromasin), formano un legame permanente e disattivante con l’Enzima Aromatasi.
– Gli inibitori non steroidei, come l’Anastrozolo (nome commerciale Arimidex) e il Letrozolo (nome commerciale Femara), inibiscono la sintesi degli Estrogeni attraverso la competizione reversibile per l’Enzima Aromatasi.
Gli inibitori dell’Aromatasi disponibili (AI) includono:
– Non selettivi:
• L’Aminoglutetimide, il quale però inibisce l’enzima P450scc agendo come inibitore della biosintesi di tutti gli ormoni steroidei (aprirò una nota a riguardo più avanti).
• Testolactone (nome commerciale Teslac) – Selettivi:
• Anastrozolo (Arimidex)
• Letrozolo (Femara)
• Exemestano (Aromasin)
• Vorozolo (Rivizor)
• Formestano (Lentaron)
• Fadrozolo (Afema)
– Non classificati:
• 1,4,6-Androstatrien-3,17-dione (ATD)
• 4-Androstene-3,6,17-trione (“6-OXO”)
Oltre agli AI farmaceutici, alcuni composti naturali hanno mostrato effetti di inibizione dell’Aromatasi, come le foglie di damiana. Il loro impatto non è stato pienamente chiarito sull’uomo.
Gli Inibitori dell’Aromatasi agiscono, proprio come suggerisce il nome, inibendo l’azione dell’enzima Aromatasi, che converte gli Androgeni in Estrogeni mediante un processo chiamato aromatizzazione. Poiché il tessuto mammario è stimolato dagli Estrogeni, diminuirne la produzione è un modo per sopprimere la recidiva del tessuto tumorale del seno. La principale fonte di Estrogeni è rappresentata dalle ovaie nelle donne in premenopausa, mentre nelle donne in post-menopausa la maggior parte degli Estrogeni del corpo viene prodotta nei tessuti periferici (al di fuori del SNC) e anche in alcuni siti del SNC in varie regioni del cervello. L’Estrogeno viene prodotto e agisce localmente in questi tessuti, ma qualsiasi estrogeno circolante, che esercita effetti estrogenici sistemici in uomini e donne, è il risultato dell’Estrogeno che sfugge al metabolismo locale e si diffonde nel sistema circolatorio.(44)
Come già accennato pocanzi, i composti AI sono anch’essi, al pari dei SERM, largamente utilizzati in ambito sportivo, sia come agenti di controllo dei livelli estrogenici durante l’uso di AAS aromatizzabili (uso preventivo della comparsa di effetti estrogenici), in caso di ginecomastia (spesso in combinazione con un SERM, specie se l’AI utilizzato è l’Exemestano) o in combinazione con i SERM in ambito PCT (specie nella fase preliminare dove viene utilizzata l’hCG).
Più che con i SERM, il rebound estrogenico è stato riportato, soprattutto aneddoticamente, con l’uso di AI, specialmente quelli reversibili (vedi Anastrozolo e Letrozolo).
L’Anastrozolo ed il Letrozolo agiscono legandosi in modo reversibile all’Enzima Aromatasi (unità eme del citocromo P450) e, attraverso l’inibizione competitiva, blocca la conversione degli Androgeni in Estrogeni nei tessuti periferici (extragonali).
Il Letrozolo ha dimostrato, attraverso studi clinici, di poter abbassare rapidamente il livello degli estrogeni fino al 65%. Il motivo principale è probabilmente legato alla capacità che la molecola ha di abbassare drasticamente gli estrogeni attraverso un legame competitivo reversibile al gruppo eme della relativa unità del citocromo P450. L’Anastrozolo, il quale agisce similmente al Letrozolo, ha mostrato una riduzione del livello estrogenico in soggetti di sesso maschile del 50%.(45) Il problema di un possibile rebound estrogenico con questi composti nasce proprio dalla loro natura “reversibile”.
Rebound estrogenici sono stati riportati sia con l’uso di Letrozolo che con l’uso di Anastrozolo, sebbene il Letrozolo, avendo un azione inibitoria più marcata, sembra causare rebound di intensità maggiore dopo la sua interruzione. La causa del rebound estrogenico indotto da cessazione d’uso di Letrozolo o di Anastrozolo è proprio legata al comportamento che queste due molecole esplicano nei confronti dell’Enzima aromatasi. Il legame tra la molecola di Letrozolo o di Anastrozolo con l’Enzima Aromatasi è solo temporanea e non decreta la completa de-attivazione dell’enzima responsabile della conversione degli Androgeni in Estrogeni. Una volta interrotta l’assunzione del composto, i livelli di Aromatasi possono salire significativamente con la possibile comparsa di un rebound estrogenico. Una pratica per evitare che ciò si verifichi consiste nell’uso limitato dei due composti e in una loro graduale sospensione. Con questi farmaci, il rebound estrogenico può essere “multifattoriale” derivando non solo dalla cessazione del farmaco in questione ma anche da un incremento dell’espressione dell’Enzima Aromatasi come risposta adattativa all’uso (specie nel lungo termine). Ciò significa che, anche durate un utilizzo cronico, i livelli di E2 possono mostrare degli aumenti, aumenti che diverranno maggiormente significativi una volta cessato l’uso del farmaco. Cessata l’azione del composto non solo viene a mancare un controllo dell’aromatizzazione ma questa risulta anche incrementata rispetto ai tassi pre-utilizzo (l’aumento dell’espressione dell’aromatasi è un comportamento adattativo che si può manifestare anche durante cicli particolarmente lunghi). Prendendo in considerazione la vita attiva del Letrozolo e dell’Anastrozolo, il possibile rebound estrogenico potrebbe manifestarsi in crescendo dopo 64-120h circa dall’ultima assunzione.
Exemestano
L’Exemestano, invece, è un inibitore dell’Aromatasi steroideo irreversibile di tipo I, strutturalmente correlato al substrato naturale 4-androstenedione. Agisce come un falso substrato per l’Enzima Aromatasi e viene trasformato in un intermedio che si lega irreversibilmente al sito attivo dell’enzima causandone l’inattivazione, un effetto noto anche come “inibizione suicida”. Essendo strutturalmente simile agli obiettivi dell’enzima, l’Exemestano si lega in modo permanente a quest’ultimo, impedendo la sua azione di conversione degli Androgeni in Estrogeni. Il tasso di soppressione degli Estrogeni da parte dell’Exemestano varia dal 35% per l’Estradiolo (E2) al 70% per l’Estrone (E1).(46)
Grazie alla sua caratteristica di “inibitore selettivo”, l’Exemestano sembra non causare un rebound estrogenico dopo la sua cessazione. Nonostante ciò, un suo uso temporalmente protratto potrebbe (teoricamente) causare, similmente a quanto accade con l’uso di Letrozolo e Anastrozolo, un aumento dell’espressione dell’Enzima Aromatasi nonché un aumento del numero di ER come risposta adattativa.
Ovviamente, questa possibilità può interessare tutti gli AI con legame irreversibile (es. Formestano).
Queste sono semplici ipotesi nate da una riflessione sulle possibili cause e meccanismi che potrebbero (teoricamente) portare al manifestarsi di un rebound estrogenico con l’uso di tali composti. La letteratura scientifica, purtroppo, non ci aiuta a fare molta chiarezza sulla connessione AI/rebound estrogenico, sebbene esistono alcuni studi nei quali la cosa viene accennata.(47)
Aminoglutetimide
*Nota sull’Aminoglutetimide: inibendo l’enzima P450scc e agendo, di conseguenza, come inibitore della biosintesi di tutti gli ormoni steroidei, l’abuso di Aminoglutetimide può potenzialmente causare non solo un rebound estrogenico ma anche un rebound dei livelli di cortisolo. Lo stesso vale per il farmaco Trylostano.
Conclusioni
Basarsi per la maggior parte sui dati aneddotici è un azzardo, anche perché la maggior parte delle variabili soggettive in gioco rimangono celate. Banalmente, alcuni lamentano rebound estrogenici che alla fine non risultano legati all’uso del SERM o del AI ma alla loro (o del Preparatore) ignoranza, come quando cessano l’utilizzo di AAS, e di SERM e/o AI, senza preoccuparsi di svolgere un adeguata PCT convinti, magari, che un po’ di Mesterolone (Proviron) risolvi tutto. Infatti, la maggior parte dei casi di presunti rebound estrogenici SERM o AI dipendenti sono causati da una repentina cessazione d’uso di questi e di AAS, oppure da una PCT mal pianificata e/o che non ha dato i risultati sperati (vedi anche alterazione della Testosterone:Estradiolo ratio). Queste condizioni sono legate più che altro ad una alterazione del HPTA data dall’uso di AAS e non ad una presunta azione diretta del SERM e/o AI precedentemente utilizzati.
In conclusione, l’uso ponderato e consapevole è l’unica vera arma che l’atleta supplementato chimicamente (o il Preparatore che lo segue) ha per far si che ipotetici rebound non si manifestino.
Gabriel Bellizzi
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L’uso della Gonadotropina Corionica Umana (hCG) è largamente diffuso nell’ambiente culturistico. Usata principalmente per ripristinare la funzionalità gonadale in seguito all’uso di AAS, questo peptide vede la sua applicazione anche durante l’uso di questa classe di farmaci (ciclo, Bridge o TRT), o di altri composti causanti un ciclo di feedback negativo dell’HPTA (vedi SARM), al fine di prevenire l’istaurarsi di una disfunzione testicolare. Fin dai primi anni della sua applicazione su soggetti di sesso maschile, l’hCG è stato oggetto di speculazioni riguardo la possibilità o meno che il suo uso possa portare ad una desensibilizzazione delle cellule di Leydig con conseguente sviluppo di ipogonadismo ipergonadotropo. Il seguente articolo è volto a riportare le caratteristiche del hCG, le sue possibili applicazioni e, in modo approfondito, fare maggiore chiarezza sulla questione legata alla possibile desensibilizzazione hCG-dipendente.
hCG: storia, usi clinici e off-label
Gonadotropina Corionica Umana
L’hCG (Human chorionic gonadotropin) o Gonadotropina Corionica è un ormone polipeptidico prodotto dall’embrione all’inizio della seconda settimana di sviluppo, in particolare dalle cellule del sinciziotrofoblasto, un tessuto epiteliale monostratificato posto nella porzione profonda del cito-sinciziotrofoblasto, subito dopo l’impianto nell’endometrio. La molecola di hCG è un eterodimero, composto da due subunità (α e β). La subunità α ha struttura identica a quella delle altre gonadotropine (LH e FSH), mentre la subunità β è specifica di ciascun ormone. Per questo motivo, i metodi di dosaggio dell’hCG utilizzano anticorpi diretti contro la subunità β dell’hCG.
Più specificatamente, la Gonadotropina Corionica è una glicoproteina oligosaccaridica composta da 244 aminoacidi. La subunità α è lunga 92 aminoacidi ed è identica a quella dell’Ormone Luteinizzante (LH), dell’Ormone Follicolo-Stimolante (FSH) e dell’Ormone Stimolante la Tiroide (TSH). Come già accennato, la subunità beta è unica per l’hCG.
L’hCG è quindi un analogo del LH, l’ormone prodotto dall’ipofisi che stimola la produzione di ormoni sessuali nei testicoli o nelle ovaie. L’hCG si lega e attiva lo stesso recettore dell’LH ed è ugualmente efficace nello stimolare la produzione di Testosterone negli uomini e di Estrogeni nelle donne.
La Gonadotropina Corionica venne isolata ed identificata per la prima volta nel 1920 (1) venendo in seguito classificata come un ormone della gravidanza circa otto anni dopo.(2) La prima preparazione farmaceutica contenente Gonadotropina Corionica si presentava sotto forma di estratto pituitario animale, il quale venne sviluppato come prodotto commerciale dalla Organon. La Organon introdusse nel mercato l’estratto nel 1931, con il nome commerciale di Pregnon. Una controversia sui marchi obbligò la compagnia a cambiare il nome Pregnyl, che raggiunse il mercato nel 1932. Il Pregnyl è attualmente venduto dalla MSD–Organon, anche se il principio attivo non è più estratto dalla pituitaria animale. Nel 1940 furono introdotte tecniche di produzione che consentivano di ottenere l’ormone filtrando e purificando l’urina delle donne incinta, e alla fine degli anni ’60 questa tecnica di produzione fu adottata da tutti i produttori che avevano usato precedentemente gli estratti animali. Nel corso degli anni i processi di produzione sono stati perfezionati, ma l’hCG è ottenuta essenzialmente nello stesso modo oggi come lo era decenni fa. Nonostante i preparati moderni siano di origine biologica, si afferma che i rischi di contaminanti biologici siano bassi (sebbene non possano essere completamente esclusi).
Al principio della sua applicazione clinica, gli usi indicati per le preparazioni a base di Gonadotropina Corionica erano molto più ampi di quanto non lo siano attualmente. La letteratura inerente al composto degli anni ’50 e ’60 raccomandava l’uso di questo farmaco per, tra le altre cose, il trattamento del sanguinamento uterino e dell’amenorrea, la sindrome di Froehlich, il criptochismo, la sterilità femminile, l’obesità, la depressione e l’impotenza maschile. Un buon esempio degli ampi usi della Gonadotropina Corionica è illustrato nel preparato Glukor, che fu descritto nel 1958 come “Tre volte più efficace del Testosterone. Per i giovani stanchi dal climaterio maschile. Per vecchi stanchi dalla senilità maschile. Benefici nell’impotenza, angina e malattia coronarica, neuropsicosi, prostatite, [e] miocardite.” Tali raccomandazioni, tuttavia, riflettono un’era meno strettamente regolata dall’agenzia governativa e meno dipendente da studi cliniche comprovati. Oggi, le indicazioni approvate dalla FDA per l’uso del hCG sono limitate al trattamento dell’ipogonadotropismo ipogonadico e del criptocridismo negli uomini e alla sterilità anovulatoria nelle donne.
Dr. A.T.W. Simeons
L’hCG non ha alcuna attività significativa di stimolo della tiroide. Questo necessita di essere specificato dato che l’hCG è stata ampiamente usata in passato per il trattamento dell’obesità. Questa applicazione d’uso sembra che sia divenuta popolare nel 1954, dopo la pubblicazione di un articolo del Dr. A.T.W. Simeons nel quale sosteneva che la Gonadotropina Corionica era un’aggiunta efficace alla dieta. Secondo lo studio, i pazienti sono stati in grado di sopprimere efficacemente l’appetito seguendo una dieta con marcata restrizione calorica abbinata alla somministrazione di hCG. Soprannominata la dieta Simeons, le persone in tutti gli Stati Uniti si sottoposero presto a severe restrizioni caloriche (500 Kcal al giorno) e iniezioni di hCG. Poco dopo, l’ormone stesso divenne il coadiuvante principale per la perdita di grasso. Infatti, nel 1957 si diceva che l’hCG era il farmaco più comunemente prescritto per la perdita di peso. Indagini più recenti e complete, tuttavia, confutano l’esistenza di qualsiasi vantaggio anoressizzante o metabolico dato dall’uso di hCG.(3) Nel 1962, il Journal of American Medical Association aveva già avvertito i consumatori circa la dieta Simeons inclusiva di hCG, affermando che la grave restrizione calorica tipica di tale protocollo dimagrante (che si rifletteva in un accentuato catabolismo del tessuto magro) era più pericolosa dell’obesità stessa. Nel 1974, la FDA aveva raccolto abbastanza dichiarazioni sull’uso del hCG per la perdita di grasso che fece inserire una dichiarazione in merito nel bugiardino dei prodotti contenenti l’ormone, nella quale affermava che non vi erano dimostrazioni sulla presunta efficacia nella perdita di peso data dalla somministrazione di hCG in concomitanza con regimi alimentari ipocalorici. Questo avvertimento è tutt’oggi presente su tutti prodotto venduti negli Stati Uniti. Nonostante questo avvertimento e prove che confutano l’efficace di tale pratica, alcune cliniche promuovono ancora l’uso di hCG per la perdita di peso.
La Gonadotropina Corionica Umana è oggi una preparazione farmaceutica molto popolare, poiché rimane una parte indispensabile della terapia di ovulazione per molti casi di infertilità femminile. Sebbene la forma di hCG sintetizzata tramite la tecnica del DNA ricombinante sia stata introdotta sul mercato negli ultimi anni, l’ampia offerta e il basso costo dell’hCG biologico continuano a renderlo un prodotto di base per gli usi clinici e off-label.
Quando vengono somministrati AAS (o SARM), i livelli di LH diminuiscono rapidamente. Il calo o l’assenza del rilascio ipofisario di LH, e suo consequenziale segnale, induce un calo o interruzione dell’attività testicolare (la quale, ovviamente, si riflette negativamente sulla sintesi di Testosterone) che causa la rapida insorgenza dell’atrofia testicolare. Questa degenerazione testicolare inizia con una riduzione del volume delle cellule di Leydig, seguita da una riduzioni rapida del Testosterone Intra-Testicolare (ITT), dei perossisomi e del fattore insulino-simile 3 (INSL3) – Tutti bio-marcatori e fattori importanti per una corretta funzione testicolare e biosintesi di Testosterone.
Tuttavia, questa degenerazione testicolare viene trattata dai Bodybuilder supplementari chimicamente con la somministrazione di hCG, in special modo all’uscita di un ciclo e per il periodo iniziale della PCT.
Tutte, o quasi tutte, le esperienze pratiche con questo farmaco nel Bodybuilding avvengono con l’uso del hCG biologico (estratto dalle urine di donne gravide), che viene generalmente venduto in vial contenenti polvere liofilizzata da ricombinare con acqua fisiologica o batteriostatica, con un contenuto che va dalle 250 alle 10.000UI per vial.
Il dosaggio clinico di hCG per trattare i casi di ipogonadismo ipogonadotropo è stato tradizionalmente di 5000UI per iniezione. Prima del 1998, la dose tipicamente utilizzata nel bodybuilding per il ripristino della funzione testicolare era la medesima. Di conseguenza, trattandosi di un quantitativo molto elevato, è stato per molto tempo considerato un farmaco di non facile gestione e dagli effetti collaterali, presunti o tali, che destavano non poca preoccupazione (vedi desensibilizzazione delle cellule di Leydig che tratterò più avanti).
Successivamente, venne introdotto l’uso di un dosaggio più basso con un limite di 1500UI per ogni singola iniezione, con una preferenza di dosaggio non superiore alle 1000UI, e con l’uso consigliato di un dosaggio pari a 500UI a somministrazione.
Molti Preparatori danno come raccomandazione quella di non superare le 500UI per ogni somministrazione, poiché non è stato riscontrato alcun vantaggio aggiuntivo nell’utilizzare un dosaggio singolo superiore a questo, a condizione che le iniezioni siano ragionevolmente frequenti (ogni 2-4 giorni).
L’intervallo di dosaggio settimanale comunemente consigliato è compreso tra circa le 700 e le 1750UI. Le dosi di esempio sono 100-250UI al giorno, 250-500 UI a giorni alterni o 250-500UI da tre volte a settimana a somministrazioni distanziate l’una dall’altra da quattro giorni.
Con tali dosaggi sono stati seguiti un numero molto elevato di individui per diversi anni e con eccellenti risultati, e la ricerca scientifica sembra aver convalidato l’utilità del mantenersi all’interno di queste dosi. Come misurato dai livelli intratesticolari di testosterone, questo livello di dosaggio massimizza i risultati. Semplicemente non risulta conveniente la somministrazione di dosi maggiori.
Si raccomandano generalmente iniezioni multiple settimanali dal momento che l’emivita del hCG è di circa 36 ore. Iniezioni meno frequenti comportano uno scarso mantenimento dei livelli ematici.
Prima del 1996, l’uso tradizionale del hCG era quello di inserirla post-ciclo con lo scopo di ripristinare una funzionalità testicolare ottimale. Ma tale pratica non risulta pienamente ottimale dal momento che rallenta comunque i processi di recupero dell’HPTA. Infatti, il tempo medio di recupero della funzionalità testicolare con l’uso del hCG risulta essere in media di 4-8 settimane. Di conseguenza, la scelta migliore, in contesti nei quali i cicli durano più di quattro settimane e/o quando il ciclo viene seguito da un “Bridge” o TRT, l’uso del hCG durante il ciclo permette di conservare una buona attività testicolare permettendo, per esempio, all’atleta in uscita da un ciclo di accelerare i processi di recupero dell’HPTA dal momento che, così facendo, evita quel periodo transitorio (e potenzialmente controproducente) tra la fine del ciclo ed il ripristino di una corretta funzionalità testicolare.
Nei contesti sopra citati, la hCG viene somministrata durante il ciclo con varianti temporali che vanno dalla seconda settimana alla quarta (dipendente dalla durata complessiva del ciclo e da ciò che l’atleta farà nel post ciclo). I dosaggi mediamente utilizzati sono 100 UI al giorno, 200 UI a giorni alterni o 250UI da 3 volte a settimana a ogni 4 giorni.
Un’altra pratica d’uso del hCG è quella di inserirla durante i cicli che non contemplano l’uso di AAS soggetti ad aromatizzazione. Con il solo uso di AAS non aromatizzabili, i livelli di estrogeni diminuiscono in modo anomalo in seguito alla sottoregolazione/soppressione del Testosterone endogeno e la consequenziale diminuzione dei substrati soggetti all’aromatizzazione. Questa condizione interferisce con l’anabolismo, la libido, l’umore, la funzione articolare e, sul lungo termine, la salute cardiovascolare. Un modo ovvio per risolvere questo problema è quello di includere almeno una piccola quantità di uno AAS aromatizzabile (vedi base terapeutica di Testosterone). In questo caso i dosaggi di hCG tipicamente utilizzati sono compresi nella fascia altra d’intervallo del dosaggio efficace suggerito (500UI a giorni alterni). La risultante sarà una sintesi di Testosterone endogeno e Estradiolo.
Terminate le dovute precisazioni sul hCG adesso possiamo trattare l’argomento centrale di questo articolo…
hCG e possibile desensibilizzazione (?)
La questione sulla possibilità secondo cui l’uso prolungato di hCG possa portare ad una condizione di ipogonadismo ipergonadotropo è tutt’ora dibattuta. L’utilizzatore deve comunque tenere a mente che il dosaggio di tale composto deve essere attentamente calibrato in specie con somministrazioni prolungate, poiché alti livelli di hCG possono anche causare un aumento dell’espressione dell’aromatasi testicolare (con conseguente innalzamento dei livelli di estrogeni), (4). Esistono studi piuttosto datati, e svolti per la maggior parte sui ratti, che riportano il verificarsi della desensibilizzazione testicolare al LH in seguito a somministrazione di alti dosaggi e per lunghi periodi di tempo.(5) Il farmaco in questione può effettivamente avere il potenziale di indurre ipogonadismo primario se usato impropriamente, peggiorando notevolmente, non migliorando, la funzionalità testicolare.
I protocolli d’uso di hCG che contemplano la somministrazione di dosi pari a 250UI per via sottocutanea ogni 3 o 4 giorni con una dose massima di 500UI, sviluppati dal Dr. John Crisler, una figura ben nota nel campo dell’Anti-Aging e della terapia ormonale sostitutiva, vengono spesso utilizzati dai soggetti in Terapia Sostitutiva del Testosterone (TRT). L’atrofia testicolare per i pazienti in TRT è un disturbo cosmetico comune. Il programma di somministrazione di hCG del Dr. Crisler è progettato per risolvere questo problema con un uso a lungo termine senza causare l’ipotetica desensibilizzazione. Coloro i quali sono interessati a gestire il timing di somministrazione del hCG con precisione in relazione ad una TRT, il dott. Crisler raccomanda quanto segue: “… i miei pazienti in TRT con Testosterone Cypionato ora somministrano la loro dose di hCG di 250IU nei due giorni precedenti l’iniezione intramuscolare (Testosterone Cypionato NdR.). Tutti i pazienti somministrano la loro dose di hCG per via sottocutanea e il dosaggio può essere aggiustato secondo necessità (devo ancora vedere una necessità di dosaggio superiore alle 350 UI per somministrazione) … Quei pazienti in TRT che preferiscono usare un Testosterone transdermico, o anche Testosterone orale (sebbene io non sia favorevole a ciò) , somministrano la loro dose di hCG ogni tre giorni. ”
Il Dr. John Crisler afferma che è importante non somministrare più di 500UI di hCG in un dato giorno. Egli infatti afferma che vi è solo una quantità massima di stimolazione, e il superamento di questo dosaggio non solo è uno spreco, ma ha conseguenze negative importanti. Dosi più elevate stimolano eccessivamente l’aromatasi testicolare, che aumenta in modo inappropriato i livelli di estrogeni portando alla comparsa di effetti collaterali tipici del iperestrogenemia. Il Dr. Crisler continua dicendo che dosi superiori a quella sopra indicata (500UI) causino anche la desensibilizzazione delle cellule di Leydig verso LH inducendo quindi all’ipogonadismo primario. Egli ribadisce che 250IU ogni 2-4 giorni sia una dose efficace e sicura. Dopotutto, stiamo semplicemente sostituendo ciò che è stato inibito.
Il Dr. Scalley, dal canto suo, critica la posizione del Dr. John Crisler affermando che, la somministrazione dell’hCG per due giorni consecutivi non ha senso, inoltre la dose è omeopatica (inutile). Inoltre, il Dr. Scalley ritiene che, nonostante il Dr. Crisler qualifichi le sue affermazione ricollegandosi a determinati studi, l’errore sta nel considerare come assodato che le dosi più elevate di quelle che consiglia causino la desensibilizzazione. Il Dr. Crisler sembra mancare di una comprensione corretta della letteratura.
Scalley riporta che la desensibilizzazione hCG-dipendente si può potenzialmente verificare in caso di somministrazione prolungata di 5.000UI (cinquemila). Ma, anche in questo caso l’incidenza non è universalmente osservata. C’è anche da aggiungere che il problema della desensibilizzazione non è quasi mai stato osservato nella pratica clinica.
Gli studi solitamente menzionati non danno in realtà alcun supporto a dimostrazione che la desensibilizzazione si verifichi con dosi superiori alle 500UI o che l’uso di 250 UI X2 volte a settimana sia una terapia utile. Se ci si pensaun attimo, qual è lo scopo dell’uso di hCG per due giorni di seguito? Questa pratica risulta completamente bizzarra. Come prima cosa, sfido chiunque a riportare la letteratura (articolo o citazioni) a sostegno del suo trattamento (del Dr. Crisler). Se Crisler è così sicuro di sé, perché non cita alcuna pubblicazione a supporto della sua terapia o, meglio, pubblichi i risultati del trattamento.
Innanzitutto, lo studio che spesso viene citato a sostegno delle tesi del Dr. Crisler (6) valuta il Testosterone Intratesticolare (ITT) e questo, di per se, non è di poca importanza. I partecipanti a questo studio sono stati trattati con Testosterone Enantato (TE), 200 mg alla settimana, per la soppressione rapida della gonadotropina in combinazione con una dose variabile di hCG, somministrata sottocute ogni 2 giorni per 3 settimane: 0 (placebo salino), 125, 250 o 500 UI hCG. Il gruppo placebo è servito come gruppo di controllo. [Nota: la differenza sostanziale è che, anche se lo studio supporta Crisler, il dosaggio è molto diverso da quello da lui raccomandato.]
Quindi, quello che lo studio ci offre sono soggetti di sesso maschile con elevati livelli di Testosterone per via di iniezioni settimanali di 200mg di Testosterone Enantato. La loro produzione endogena di Testosterone è completamente soppressa (teoricamente) come le loro gonadotropine. Il ITT risulta quindi soppresso a causa dell’inibizione delle gonadotropine date dalla somministrazione di Testosterone Enantato. I ricercatori hanno scoperto che ogni dose di hCG (125, 250 e 500 UI) riportava la concentrazione di ITT alla normalità. Si da il caso però che in un maschio normale con un normale livello di Testosterone serico il suo ITT sarà normale. Tutto questo studio è stato semplicemente prendere un maschio normale e sostituire il suo Testosterone con del Testosterone esogeno per poi somministrargli hCG come sostituto del suo LH.
L’unica cosa che può essere salvata di questo studio, è che può essere istruttiva per chi usa hCG a basse dosi in on-cicle, in “Bridge” o in TRT. Più precisamente ci dice qualcosa sulla terapia con hCG mentre si usa un dosaggio “simil-TRT”.
Nello studio risulta interessante esaminare i dati sulle variazioni seriche di Testosterone con ciascuna dose di hCG. I soggetti presi in esame hanno usato una dose contenuta (seppur fisiologicamente alta) di Testosterone Enantato, creando una situazione che per certi versi riproduce quella di un individuo che usa hCG in TRT. Il risultato è stato che la dose di hCG da 125UI a giorni alterni non ha avuto effetti sul Testosterone serico. Le due dosi più elevate (250-500UI) hanno alzato i livelli di Testosterone nel siero al di sopra del normale.
Non ci sono dati individuali (sempre motivo di sospetto quando si esamina la letteratura) e non sono riportati livelli significativi. L’analisi del grafico dello studio riportato di seguito, tuttavia, mostra che il livello di Testosterone del siero non era significativamente diverso dal controllo fino al giorno 21[altra nota a discredito delle affermazioni del Dr. Crisler].
Ci sono quindi molti possibili errori nell’analisi dello studio appena discusso. Dal momento che non ci mostra un analisi sufficientemente accurata tale da permetterci di identificare una soglia di dosaggio che porti alla desensibilizzazione delle cellule di Leydig.
Si può ipotizzare che la modalità di somministrazione dell’hCG nei due giorni precedenti l’iniezione settimanale di Testosterone (come indicato nel protocollo del Dr Crisler) serva da teorico “supporto” al calo della soglia ematica di quest’ultimo. Se si legge la letteratura disponibile sugli effetti dell’hCG, il rialzo dei livelli di Testosterone serico si manifestano in modo significativo a circa 48-72 ore dopo la somministrazione del peptide. Questo dosaggio concentrato in due giorni non da reali vantaggi sulla funzionalità testicolare. Quindi, fino a dimostrazione contraria, le ipotesi del Dr. Crisler sulla somministrazione ottimale di hCG, per effetti e sicurezza riguardo la desensibilizzazione testicolari, non sono altro che opinabili speculazioni.
Per tutti gli scopi pratici, la desensibilizzazione delle cellule di Leydig hCG-dipendente praticamente non sussiste all’interno del quadro clinico, sebbene rimanga una possibilità con l’uso di dosi elevate e per un lungo periodo di tempo (>5000UI)
17 alfa-hydroxyprogesterone
Esiste uno studio che, seppur “isolato”, ritengo sia interessante per farsi un idea delle variabili e della differenza tra possibilità universalmente riscontrate e possibilità di bassa o scarsa incidenza. Si tratta di uno studio nel quale si è osservato che la somministrazione di Tamoxifene in maschi sani ha causato una riduzione dell’accumulo del 17 α-hydroxyprogesterone hCG-indotto.(7)
In questo studio, la somministrazione per via intramuscolare di 1500 UI di hCG al giorno per 3 giorni ha indotto un accumulo transitorio di 17 α-hydroxyprogesterone (17 OHP) rispetto al Testosterone (T) in uomini normali, raggiungendo il massimo nelle 24 ore successive la prima iniezione (rapporto 17 OHP / T, 1,7 +/- 0,3 volte il basale, P <0,01). La somministrazione simultanea di hCG e Tamoxifene (20 mg due volte al giorno) ha quasi completamente soppresso il blocco steroidogenico indotto dal hCG e osservato con il 17 OHP:T ratio (rapporto 17 OHP-T a 24 ore, 1,1 +/- 0,1 volte il basale; 0,01 vs hCG da solo). Questi dati suggeriscono indirettamente che, nell’uomo, la lesione steroidogenica indotta dal hCG potrebbe essere mediata attraverso il suo effetto stimolante sugli estrogeni.
Un altro studio svolto sulla falsariga del precedente, ma ad una distanza di undici anni, ha osservato l’effetto del Tamoxifene sulla risposta testicolare al hCG. (8) Se si legge con attenzione il presente studio, anche alla luce di quanto affermato pocanzi, si riesce ad avere un quadro molto più chiaro sulla questione.
Tamoxifene
In questo studio è stato osservato l’effetto del Tamoxifene (Tx) in concomitanza con la somministrazione acuta e cronica di hCG in pazienti con ipogonadismo ipogonadotropo (HH) e in uomini normali. Un test con hCG (5000 UI hCG) è stato svolto prima e dopo due mesi di somministrazione di hCG (2000 UI di hCG tre volte a settimana) e dopo due mesi di hCG + Tx (2000 UI hCG tre volte a settimana più 20 mg/die di Tamoxifene). I campioni di sangue sono stati prelevati 24 e 72 ore prima e dopo ogni test per determinare i livelli di Testosterone , Estradiolo, 17OHP e SHBG. Il Testosterone è aumentato solo nel gruppo HH con entrambi i trattamenti (X +/- SEM: basale: 97,9 +/- 19,7; hCG: 237,7 +/- 43,2; hCG +/- Tx: 204,7 +/- 10,7 ng / 100 ml). Il 17OHP è aumentato con la somministrazione di hCG da solo, ma non con hCG + Tx in entrambi i gruppi. Il rapporto Estradiolo, SHBG e 17OHP / Testosterone non è cambiato dopo i trattamenti. In risposta al hCG il Testosterone è aumentato 24 ore dopo la somministrazione in ogni test. Il rapporto 17OHP / Testosterone è salito dopo 24 ore nel primo e nel secondo test, ma nel terzo test non è cambiato. Questi risultati supportano il ruolo del Estradiolo nella desensibilizzazione delle cellule di Leydig indotto da una somministrazione acuta di hCG. Tuttavia, l’associazione di Tx non migliora i livelli serici di Testosterone, suggerendo che l’Estradiolo potrebbe non essere il fattore unico coinvolto nei meccanismi di desensibilizzazione testicolare.
Sembrerebbe, quindi, che il fattore determinante legato ad una possibile desensibilizzazione o sottoregolazione della funzionalità testicolare (in particolar modo in riferimento alle cellule di Leydig) sia la dose in acuto e, soprattutto, in cronico. Per ciò che concerne la dose utile questa è invece determinata dal limite fisiologico di stimolo della secrezione di Testosterone che, negli uomini sani con una sensibilità testicolare normale, si è visto corrispondere ad una dose di sole 250UI, con ulteriori aumenti minimi ottenuti con 500UI a 5000UI.
Conclusioni
Sebbene, come già accennato, la questione non sia del tutto chiarita, le informazioni riportate in questo articolo possono senz’altro permettere una pratica d’uso del hCG “sicura” e, soprattutto, intelligente nel contesto di una preparazione farmacologica. Risulta abbastanza chiaro che iniezione intramuscolare o sottocutanee di hCG a dosi di 100-200UI al giorno, 200-250 UI a giorni alterni o 250-500UI da tre volte a settimana a una somministrazione ogni 4 giorni, risultano pienamente efficace per evitare la disfunzione e seguente atrofia testicolare durante l’uso di AAS (o SARM) mantenendone una buona funzionalità in mancanza di stimoli dati dal LH. Dosi superiori a quelle riportate non offrono ulteriori vantaggi. Si tenga inoltre bene a mente che la desensibilizzazione delle cellule di Leydig può manifestarsi con maggiore facilità in una situazione di mancanza di segnale dato dall’LH, condizione che viene spesso osservata in quegli atleti che non usano hCG durante i cicli. Tale desensibilizzazione, però, risulta più semplice da trattare rispetto ad una desensibilizzazione indotta da uno stimolo eccessivo delle cellule di Leydig che, in casi cronici, obbliga il soggetto colpito a doversi sottoporre a trattamento con Testosterone esogeno (TRT).
Quindi, in definitiva, le nozioni base da tenere bene a mente sono:
Uso di dosi e tempi di somministrazione utili allo scopo prefissato (evitare la disfunzione testicolare e avere un ottimale stimolo della biosintesi di Testosterone)
Iniziare la somministrazione di hCG durante il ciclo (tempo variabile dalle 2 alle 4 settimane dall’inizio del ciclo e determinato dalle scelte future al ciclo [PCT, Bridge o TRT]
Non eccedere le 500UI a giorni alterni (principalmente perché dosi più elevate non portano vantaggi considerevoli)
Un’altra nota che mi sento di aggiungere è in riferimento alla ricombinazione del contenuto delle vial e delle procedure per la sterilità del prodotto. Le vial di hCG dovrebbero essere ricostituite con una quantità di soluzione acquosa (sterile o batteriostatica) basata sul quantitativo effettivo in UI della vial. Ad esempio, una vial da 5000UI può essere convenientemente ricombinata con 2,5ml d’acqua. Ciò fornisce una soluzione di 2000IU/ml , che consente un facile calcolo del dosaggio necessario. Ad esempio, una dose di 200 UI richiederebbe quindi l’aspirazione di 0,1mL di soluzione, che sarebbe contrassegnata con “10 UI” su una siringa da insulina.
Se la capacità della vial lo consente, è possibile aggiungere 5,0ml di acqua in una vial da 5000UI. La soluzione risultante sarebbe ovviamente di 1000IU/mL, consentendo un calcolo ancora più semplice del dosaggio necessario.
L’iniezione può essere eseguita intramuscolarmente o sottocute in base alle preferenze personali.
Le vial di hCG non ricostituite devono essere conservate in frigo. Sebbene possano essere spedite a temperatura ambiente. Le vial ricostituite devono sempre essere conservate in frigo; tuttavia, se una vial viene accidentalmente lasciata a temperatura ambiente per un giorno, il principio attivo non subirà alcun deterioramento.
Cosa molto importante quando si manipola l’hCG è quella di impiegare corrette procedure per mantenere la sterilità della vial e della soluzione ivi contenuta. La membrana di gomma deve sempre essere pulita accuratamente con alcool e l’ago deve essere sterile. Il peptide acquoso, o in questo caso le soluzioni glicopeptidiche possono supportare la crescita batterica molto più di quanto possano fare le soluzioni oleose, quindi è raccomandata la massima cura della sterilità del prodotto. Se si nota un intorpidimento della soluzione è consigliabile che il prodotto non venga utilizzato.
Gabriel Bellizzi
Riferimenti:
Exogenous stimulation of corpus luteum formation in the rabbit; influence of extracts of human placenta, decidua, fetus, hydatid mole and corpus luteum on the rabbit gonad. Hirose T 1920 J Jpn Gynecol Sot 16:1055.
Die Schwangerschaftsdiagnose ausdem Ham durch Nachweis des Hypophysenvorderlappen-hormone. II. Pracktishe und theoretische Ergebnisse aus den hamuntersuchungen. Ascheim S, Zondek B 1928 Klin Wochenschr 7:1453-1457.
Un maggior utilizzo di AAS da parte di un atleta si traduce in una maggiore probabilità di avere problemi sessuali durante i periodi di non utilizzo. E no, la PCT non sembra rendere esenti da tali possibili problemi. I ricercatori del American Mayo hospital hanno osservato tale effetto in seguito ad uno studio svolto su diverse centinaia di Bodybuilder supplementati farmacologicamente.(1)
I ricercatori hanno contattato 231 utilizzatori di AAS maschi, attraverso nove forum di bodybuilding, i quali erano pronti a rispondere a domande online sulla loro salute sessuale e sul loro uso di AAS. Per rilevare eventuali disfunzioni erettili, i ricercatori hanno utilizzato una versione abbreviata del questionario IEEF-5. Potete trovarne una copia qui. Gli uomini che totalizzano un punteggio pari o maggiore di 22 non hanno nulla di cui lamentarsi sessualmente parlando, mentre gli uomini che ottengono un punteggio di 17-21 soffrono di un lieve disturbo erettile.
I partecipanti hanno ottenuto un punteggio leggermente superiore sull’IEEF-5 se erano sottoposti ad iniezioni superiori ai 600mg di Testosterone a settimana, se usavano anche un AAS orale o un anti-estrogeno e se erano in buone condizioni di salute. Non molto sorprendente come risultato.
127 utilizzatori hanno affermato che nei loro periodi “off” la libido diminuiva. Questo però non è stato riportato da altri 94 utilizzatori. Quando i ricercatori hanno messo a confronto questi due gruppi, hanno notato che il rischio che si verifichi una riduzione della libido aumentava in modo significativo qualora gli utilizzatori avessero seguito protocolli di AAS per molte settimane all’anno e avessero una lunga storia di utilizzo di questa classe di farmaci.
Lo svolgimento di una PCT era pratica diffusa nel gruppo in cui la libido tra i cicli non diminuiva rispetto al gruppo in cui la libido diminuiva. Tuttavia, questa differenza non era statisticamente significativa.
L’attuale studio rappresenta ad oggi la più grande valutazione sull’impatto dell’utilizzo di AAS ad alto dosaggio e nel lungo periodo sulla funzione sessuale. I risultati dimostrano che l’aumento della durata e della frequenza di utilizzo degli AAS sono associate a più alti tassi di disfunzione erettile de novo e diminuzione della libido dopo l’interruzione d’uso del/i composto/i.
Gli uomini con disfunzione erettile de novo avevano anche maggiori probabilità di riportare altri sintomi legati a bassi livelli di Testosterone, come riduzione della libido, diminuzione dell’energia, depressione, riduzione soggettiva della massa muscolare e aumento soggettivo della massa grassa. Diversamente a ciò, durante l’uso di un dosaggio più alto di Testosterone e l’uso (con tutta probabilità ponderato) di anti-estrogeni si sono osservati punteggi più alti sul questionario IEEF-5.
L’aumento esponenziale di patologie psichiatriche, tra le quali emergono maggiormente ansia e depressione, ha portato ad un consequenziale aumento del consumo di psicofarmaci (una stima riporta che il 20% della popolazione in Italia fa uso di psicofarmaci). Il tema dell’utilizzo di psicofarmaci, come ansiolitici e antidepressivi, è molto attuale e discussa in gran parte d’Europa e negli Stati Uniti. E non sono pochi i medici che si interrogano da tempo sulle cause e i potenziali effetti della loro diffusione. Gli innumerevoli effetti collaterali legati agli psicofarmaci più diffusi (vedi antidepressivi e benzodiazepine) in molti casi, “arginando” (con marcate differenze soggettive) da una parte il malessere primario lamentato dal paziente, tendono a causare diversi problemi più o meno gravi che non solo hanno il potenziale di peggiorare le condizioni di salute del soggetto trattato ma possono anche peggiorarne le condizioni psicologiche. Uno di questi effetti è l’aumento di peso. Di particolare interesse anche per gli atleti, l’aumento di peso e il peggioramento della composizione corporea legato all’uso degli antidepressivi è un tema tutt’altro che chiarito ed è spesso dibattuto senza avere la ben che minima formazione in merito. Scopo di questo articolo è quello di analizzare più da vicino la correlazione tra antidepressivi e aumento del peso corporeo.
Introduzione
I farmaci psicotropi hanno vari effetti collaterali e l’aumento del peso corporeo è uno di questi effetti ed è correlato ad un certo numero di composti facenti parte di questa classe di farmaci. Esiste un’ampia evidenza empirica che mostra la relazione tra la terapia antipsicotica e l’aumento del peso corporeo. Più precisamente gli antipsicotici di seconda generazione (SGA) sono noti per il loro potenziale di causare un significativo aumento del peso corporeo.(1) Tuttavia esiste una carenza di prove per quanto riguarda l’effetto degli antidepressivi sui cambiamenti del peso e della composizione corporea rispetto agli antipsicotici, lasciando aperte ulteriori controversie relative all’effetto di questi farmaci su tale risposta indotta.(1)
La depressione e l’obesità sono ormai due diffusi problemi della salute psicofisica nella società moderna.(2,3) Non ci sono studi che suggeriscono un’associazione positiva tra la depressione e l’obesità. (4-7) Alcuni ricercatori hanno tentato di stabilire i meccanismi alla base per l’associazione positiva tra obesità e depressione. (4,6,8-11) Wild et al. (4), McCarty et al. (8) e Ball et al (9) hanno suggerito che le donne sono più inclini a diventare obese durante gli stati depressivi rispetto agli uomini. Heo et al (10) hanno identificato nel sesso, età e razza dei fattori che contribuiscono all’associazione tra obesità e depressione. Fattori sociali e culturali possono anche contribuire all’aumento di peso e all’obesità che si verificano parallelamente ai disturbi dell’umore.(6) Afari et al (11) hanno svolto uno studio finalizzato a constatare se le influenze genetiche condivise sono responsabili dell’associazione tra queste due condizioni scoprendo un’associazione fenotipica modesta tra la depressione e l’obesità. È stato anche scoperto che i farmaci antidepressivi rappresentano un fattore potenziale per l’induzione dell’aumento di peso nei pazienti depressi. (5,12,13)
Tra antidepressivi TCA (antidepressivi triciclici), IMAO (inibitori delle monoamino ossidasi), e Mirtazapina (antidepressivo di seconda generazione appartenente alla classe farmacologica dei NaSSA) sono noti per dare maggiori problemi legati all’aumento di peso.(14) Alcuni pazienti possono anche aumentare di peso durante l’assunzione di SSRI, in particolare con terapia a base di Paroxetina.(15) Lo scopo di questo articolo è di intraprendere una revisione completa della letteratura riguardante l’effetto degli antidepressivi sui cambiamenti del peso e della composizione corporea, per chiarire se l’aumento di peso si verifica frequentemente con l’uso di antidepressivi e quali antidepressivi sono associati con l’aumento di peso. Gli studi disponibili saranno classificati in base a ciascun antidepressivo al fine di ottenere una prospettiva generale sull’effetto di ciascun farmaco sulle variazioni del peso corporeo. Infine verranno discusse le aree nelle quali la conoscenza è maggiormente carente dei farmaci antidepressivi e gli esiti dell’aumento di peso.
Una ricerca in rete è stata condotta attraverso i database di Medline, Pubmed, Cochrane library e Science Direct ed è stata passata al vaglio la letteratura pubblicata tra il gennaio 1973 e l’agosto 2012 utilizzando come criterio di ricerca due gruppi di parole chiave: antidepressivi, i nomi di ciascuna categoria di antidepressivi, parola chiave del primo gruppo, e, come parola chiave del secondo gruppo, obesità e peso. Gli articoli identificati nella procedura di ricerca sono stati esaminati e gli elenchi di riferimento degli articoli recensiti sono stati cercati manualmente. I riferimenti identificati come rilevanti sono stati recuperati e rivisti. Dopo aver esaminato tutti gli studi, quelli che non avevano alcun contenuto sull’associazione tra antidepressivi e variazioni di peso sono stati esclusi. Gli articoli rimanenti hanno tutti soddisfatto i criteri di ricerca come risultato principale o come risultato secondario. Tra questi articoli, sono stati identificati quarantanove studi empirici tra cui alcuni che prendevano in esame l’applicazione di diversi antidepressivi senza alcuna specificazione e alcuni hanno usato ciascun particolare antidepressivo in gruppi separati. L’ultimo gruppo che contiene risultati più precisi per ciascun antidepressivo specifico è stato enfatizzato nel presente articolo.
Esistono quarantanove studi empirici in letteratura riguardanti l’effetto degli antidepressivi sui cambiamenti del peso corporeo. Ogni antidepressivo viene discusso separatamente secondo la letteratura pertinente. La tabella 1 illustra il riepilogo dei risultati che sono stati raggiunti attraverso la review* che ha reso possibile la realizzazione di questo articolo.
Esposizione “causa/effetto” dei farmaci antidepressivi presi in esame
Amitriptilina
L’Amitriptilina è un antidepressivo comunemente collegato all’aumento di peso. (12,13,16-22) In uno studio clinico 51 donne depresse trattate con Amitriptilina sono state divise in due gruppi; un gruppo aveva mantenuto l’uso della Amitriptilina per nove mesi mentre un altro gruppo aveva sospeso l’assunzione del farmaco dopo tre mesi. Entrambi i gruppi hanno mostrato un guadagno di peso durante il recupero. Tuttavia, il gruppo trattato con Amitriptilina ha continuato a ingrassare eccessivamente, mentre la cessazione dell’assunzione del farmaco dopo nove mesi di trattamento ha causato una perdita di peso.(16) Il risultato di un altro studio randomizzato in doppio cieco di sei settimane ha mostrato aumenti di peso corporeo significativamente più elevati con l’assunzione di Amitriptilina rispetto al placebo e al Trazodone (quest’ultimo ha causato una leggera perdita di peso).(17) Pande et al (18) hanno scoperto che il 100% dei pazienti trattati con Amitriptilina durante il trattamento ha subito un aumento di peso. L’Amitriptilina induce un notevole aumento di peso nei pazienti, il quale è superiore all’aumento di peso dovuto alla somministrazione di Clomipramina e Imipramina.(12) Un altro studio ha riportato aumenti di peso modesti (1,7 ± 4,1 Kg) nel 22% dei pazienti trattati con Amitriptilina in un doppio-studio clinico controllato con placebo. (20) Berilgen et al (22) hanno riscontrato che l’Amitriptilina causa aumento di peso e aumento dei livelli serici di Leptina suggerendo che l’Amitriptilina può causare resistenza alla Leptina con tutte le conseguenze ad essa correlate. Al contrario, Hinze-Selch et al (21) non hanno riscontrato influenze sui livelli di Leptina con l’uso di TCA compresa l’Amitriptilina, nonostante l’uso di questi composti abbia portato ad un aumento di peso.
Due esperimenti svolti su animali nei quali sono stati utilizzati ratti Wistar (23) e ratti OLETF (24) non furono in grado di riprodurre l’aumento di peso corporeo connesso alla terapia con Amitriptilina e lo studio portò alla conclusione che non vi era alcun legame tra l’aumento di peso e il trattamento con Amitriptilina nei ratti.(23, 24) Ciò mostra che gli studi disponibili nei quali è stato osservato l’effetto della Amitriptilina sugli animali non possono essere usati come modello di paragone per ipotizzare i meccanismi che portano all’aumento di peso con la somministrazione di Amitriptilina osservato in ambiente clinico.
Clomipramina
La Clomipramina induce un aumento di peso nell’uomo come sostenuto da due studi clinici.(12, 25) Al contrario, la Clomipramina ha ridotto l’aumento di peso e l’assunzione di cibo nei ratti Wistar maschi mantenuti su un regime dietetico di auto-selezione con fonti separate di proteine, grassi e carboidrati.(26) Durante i 27 giorni di questo studio, la Clomipramina non ha alterato il consumo alimentare dalle fonti proteiche e lipidiche, ma ha ridotto l’apporto energetico a seguito di una diminuzione nell’assunzione dalla fonte glucidica cosa che si è riflessa positivamente sul peso corporeo.(26)
Imipramina
L’Imipramina non mostra lo stesso impatto nel causare l’aumento del peso corporeo rispetto all’Amitriptilina e alla Clomipramina. Un aumento di peso non significativo è stato il risultato della maggior parte degli studi svolti (27-29). Pesi medi di 2,1 ± 1,5 kg dopo 6 settimane e 4 ± 1,4 kg dopo 4-6 mesi sono stati registrati nei pazienti che assumevano Imipramina in uno studio controllato.(12) In uno studio sperimentale basato sugli animali, l’aumento di peso è stato raggiunto e persino protratto nei ratti dopo l’interruzione della somministrazione della Imipramina.(30)
Desipramina
Il cinquanta per cento dei pazienti trattati con Desipramina, in uno studio clinico durato 10 anni, hanno guadagnato peso.(18) topi Sabra femmina hanno mostrato un graduale aumento del loro peso corporeo durante l’assunzione della Desipramina, rispetto al gruppo dei ratti trattati con placebo.(31)
Nortriptilina
Tutti e cinque gli studi clinici disponibili per la Nortriptilina hanno riportato vari gradi di aumento di peso nei pazienti che assumevano questo farmaco.(18,21,32-34) Un gruppo di ricercatori ha esaminato l’efficacia e la tollerabilità della Nortriptilina in 35 bambini e adolescenti affetti da ADHD (Sindrome da deficit di attenzione e iperattività). Una delle loro scoperte durante lo studio in doppio cieco, controllato con placebo , è stata che la Nortriptilina ha causato un aumento di peso di 5,2 libbre (2,35kg) in media nel corso delle nove settimane dello studio.(32) Hinze-Selch et al (21) hanno riscontrato significativi aumenti di peso con Amitriptilina /Nortriptilina nella loro sperimentazione clinica controllata, mentre non hanno segnalato alcun aumento dei livelli plasmatici di Leptina . Nei pazienti geriatrici, la Nortriptilina non ha causato un marcato aumento di peso poiché un significativo aumento di peso (> 10 lb) si è verificato solo nel 17,2% dei pazienti nel periodo di 30 settimane dello studio.(34) Il 24% dei pazienti dello studio ha mostrato una perdita di peso al di sotto del livello premorboso e il 20,7% non ha mostrato alcun cambiamento di peso.(34)
Protriptilina
Una perdita di peso media di 1,75Ib (793g circa) a settimana è stata raggiunta dai pazienti trattati con Protriptilina in uno studio clinico nel quale è stata osservata l’influenze della Protriptilina sui cambiamenti del peso corporeo nei pazienti con basso livello urinario di 3metossi-4-idrossi-fenilglicole.(35)
Maprotilina (antidepressivo tetraciclico)
Come risultato di uno studio clinico controllato nel quale si sono osservati gli effetti di diversi antidepressivi sulle variazioni del peso corporeo, la Maprotilina e l’Amitriptilina hanno indotto un aumento di peso più marcato mentre gli antidepressivi Imipramina e non triciclici hanno indotto un aumento di peso minore. (12) I pazienti trattati con Maprotilina hanno subito aumenti di peso di 3,2 ± 2,6 kg dopo 6 settimane e 5,2 ± 4,1 kg dopo 4-6 mesi.(12)
Fenelzina e Tranilcipromina
Partendo dall’alto: Fenelzina e Tranilcipromina
Nell’unico studio clinico disponibile attraverso il quale si è osservata l’influenza della Fenelzina sulle variazioni del peso corporeo, ha mostrato che l’aumento di peso è stato raggiunto dal 46% dei pazienti che avevano assunto questo farmaco per dieci anni.(18) Nello stesso studio il Tranilcipromina ha indotto il maggiore aumento di peso ( una media di 4,1 ± 2,2 Kg di aumento di peso nel 73% dei pazienti) rispetto ad altri antidepressivi inclusi Desipramina, Nortriptilina, Amitriptilina e Fenelzina (18).
Moclebomide
L’unico studio disponibile trattante l’effetto del Moclebomide sulle variazioni del peso corporeo ha riportato un aumento di peso non significativo a seguito dell’assunzione di questo farmaco durante il trattamento a breve termine (6 settimane) ed a lungo termine (18 settimane).(19)
Fluoxetina
Esistono risultati contrastanti in letteratura sull’effetto della Fluoxetina sui cambiamenti del peso corporeo. Alcuni ricercatori hanno riportato la perdita di peso in seguito a somministrazione di Fluoxetina (19, 35-38), e alcuni altri hanno osservato un effetto inibitorio sull’assunzione di cibo da parte dei ratti trattati con questo farmaco.(39) Al contrario, altri ricercatori hanno scoperto che la Fluoxetina può sia provocare un aumento di peso (30,40) che non portare alcun cambiamento in questo parametro.(24) Michelson et al (41) hanno anche esaminato l’effetto della Fluoxetina sui cambiamenti di peso corporeo e hanno rilevato sia un aumento e una perdita di peso corporeo, rispettivamente durante le fasi acuta e cronica del trattamento. Durante questo studio clinico durato un anno e nel quale sono stati esaminati 839 pazienti depressi, una modesta perdita di peso si è verificata dopo le 4 settimane iniziali nei pazienti che assumevano Fluoxetina. (41) Nella fase continua e dopo la remissione dei sintomi depressivi tutti i pazienti hanno preso peso e questi aumenti erano simili in entrambi i gruppi, sia in quello trattato con Fluoxetina che nel gruppo Placebo. Pertanto questo può essere dovuto alla remissione e non necessariamente al farmaco in modo diretto.(41) Un altro studio che ha trovato risultati contrastanti per la Fluoxetina è stato effettuato prendendo in considerazione il peso di base dei pazienti depressi.(42) Questo studio ha osservato una perdita di peso nei pazienti in sovrappeso e un aumento del peso corporeo nei pazienti normo peso come risultato del trattamento con Fluoxetina.(42)
Fluvoxamina
In uno studio in doppio cieco, Moon e Jesinger (43) hanno confrontato gli effetti collaterali della Fluvoxamina e della Mianserina in 59 pazienti depressi. Di conseguenza, la Fluvoxamina non ha causato alcun aumento di peso come effetto collaterale mentre la Mianserina ha indotto l’aumento di peso. (43) In un altro studio i cui partecipanti erano 40 donne obese, la Fluvoxamina ha causato una perdita di peso media di 3,1 kg durante 12 settimane. Maggiore, ma non significativamente diverso dal gruppo controllato trattato con placebo.(44) Precisamente, la Fluvoxamina non induce aumenti di peso e può addirittura causare la perdita di peso nelle donne depresse obese.(44)
Paroxetina
La Paroxetina è un altro antidepressivo che ha ottenuto risultati diversi per quanto riguarda la sua influenza sui cambiamenti del peso corporeo. Vi sono due studi clinici randomizzati che riportano aumenti di peso con l’uso di questo farmaco.(37,45) Benkert et al (41) hanno studiato l’efficacia e la tollerabilità della Mirtazapina rispetto alla Paroxetina e hanno scoperto che entrambi i farmaci inducevano aumenti di peso dopo 6 settimane in pazienti depressi e questo effetto era più forte per la Mirtazapina rispetto alla Paroxetina. Cambiamenti nel peso corporeo di 284 pazienti con disturbo depressivo maggiore che sono stati assegnati in modo casuale al trattamento in doppio cieco con Fluoxetina, Sertralina e Paroxetina sono stati osservati in uno studio clinico.(37) Aumenti significativi del peso si sono verificati solo nel gruppo Paroxetina per un totale di 26 e 32 settimane.(37) Al contrario, la Paroxetina non è stata osservata indurre alcun aumento di peso statisticamente significativo nei pazienti depressi durante uno studio retrospettivo comparativo che ha utilizzato registri clinici di studi in doppio cieco.(19) Un altro studio che ha concluso che la Paroxetina non influenza il peso corporeo è quello svolto da Hinze-Selch et al.(21) In questo studio hanno osservato gli effetti di diversi antidepressivi sul peso corporeo, i livelli della Leptina plasmatica, i recettori TNF-a e solubili del TNF. Gli autori hanno riportato che la Paroxetina non ha apportato alcuna modifica nei fattori citati, compreso il peso corporeo, simile agli effetti del trattamento senza farmaci, ma contrario al trattamento con TCA che ha causato aumenti del peso corporeo e dei livelli di Leptina nel plasma. In un altro studio si suggerisce che la Paroxetina inibisca significativamente l’assunzione di cibo nei ratti.(39)
Citalopram
Wade et al hanno condotto due studi di 12 mesi: (i) uno studio randomizzato in doppio cieco nel quale si è usato placebo, Citalopram e Clomipmmina su 279 pazienti con disturbo di panico e (ii) uno studio aperto con Citalopram su 541 pazienti depressi. Nel primo studio i pazienti con disturbo di panico trattati con Citalopram non si sono avvicinati ad un aumento di peso statisticamente significativo e nel trial dove i pazienti depressi hanno assunto il Citalopram esso o non ha causato alcun aumento di peso o a portato ad un leggero aumento di peso (<2,5 kg) nella maggioranza dei pazienti.(25) Gli autori hanno suggerito che i minimi aumenti di peso osservati nei pazienti depressi possono essere il risultato di un aumento dell’appetito legato al miglioramento della loro condizione.(25) Il Citalopram è stato anche causa di un aumento del peso non significativo in un altro studio clinico.(46) Di 18 pazienti che sono stati esaminati per valutare il desiderio di carboidrati causato dal trattamento con Citalopram (SSRI), in una clinica per i disturbi dell’umore, otto soggetti hanno mostrato un aumento significativo della voglia di carboidrati insieme all’aumento di peso subito dopo l’inizio del trattamento.(47)
Escitalopram
Durante uno studio clinico in doppio cieco della durata di otto mesi i pazienti trattati con Escitalopram hanno subito un aumento di peso medio di 1,38 kg, che era superiore all’aumento di peso nei pazienti trattati con Duloxetina.(48) Un aumento di peso non significativo di 0,14 kg in 6 mesi è stato il risultato di un altro studio aperto randomizzato.(33)
Sertralina
La Sertralina può indurre un modesto aumento ponderale nei pazienti depressi.(37) I pazienti obesi possono perdere peso durante l’assunzione di Sertralina in particolare quelli con MHPG urinario basso (3-metossi-4-idrossifenilglicole).(49) Meyerowitz e Jaramillo (1994) in uno studio clinico per valutare l’effetto della Sertralina sul peso corporeo di 23 pazienti depressi e sovrappeso hanno effettuato la misurazione delle loro concentrazioni urinarie di 3-metossi-4-idrossifenilglicole (MHPG). I risultati hanno mostrato che la Sertralina può causare la perdita di peso e con una media di 1,06 libbre/settimana (circa 480g) in pazienti con bassi livelli urinari di MHPG che è risultata significativamente superiore alla perdita media di peso di 0,42 lb/settimana (circa 190g) riscontrata nei pazienti con alti livelli urinari di MHPG.(49)
Zimelidina
L’unico studio disponibile ha riportato che la Zimelidina non ha causato alcun aumento di peso e, in molti casi, ha portato ad una perdita di peso con un cambiamento medio del peso di 0,2 ± 1,8 kg durante un mese di somministrazione di questo antidepressivo in uno studio clinico randomizzato. (50)
Duloxetina
Durante uno studio controllato in doppio cieco, la Duloxetina ha avuto un’incidenza significativamente maggiore nell’aumento anormale del peso durante il trattamento (aumento del 7% del peso rispetto al basale) rispetto al placebo.(48) Durante 10 studi clinici controllati l’effetto della Duloxetina sul peso corporeo dei pazienti con disturbo depressivo maggiore è stato analizzato. (51) I risultati di questi studi non hanno indicato alcun effetto coerente dato dalla Duloxetina sul peso poiché i pazienti trattati con questo farmaco hanno subito una modesta perdita di peso in fase acuta a seguito di un modesto aumento ponderale durante trattamenti più lunghi. (51)
Mianserina
In uno studio in doppio cieco di sei settimane, Moon e Jesinger (43) hanno valutato l’efficacia della Mianserina e della Fluvoxamina in pazienti affetti da episodio depressivo maggiore. La Mianserina ha influenzato la compliance a causa dell’aumento di peso per un periodo più lungo.
Mirtazapina
La Mirtazapina ha mostrato di causare aumenti di peso in diversi studi svolti sull’uomo. (20,45,46,52) Durante uno studio in doppio cieco placebo-controllato svolto su pazienti adulti con disturbo depressivo maggiore, l’efficacia della Mirtazapina è stata confrontata con l’Amitriptilina. Uno dei risultati di questo studio ha evidenziato che l’aumento di peso misurato era più frequente con l’uso di Amitriptilina (22% dei pazienti) rispetto a quanto osservato con l’uso di Mirtazapina (13% dei pazienti).(20) Un altro confronto è stato fatto tra l’efficacia e la tollerabilità della Mirtazapina rispetto alla Paroxetina su 275 pazienti ambulatoriali depressi. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale a 6 settimane di trattamento con Mirtazapina o Paroxetina. Il risultato relativo all’aumento di peso ha mostrato un aumento di peso maggiore nel gruppo trattato con Mirtazapina rispetto al gruppo trattato con Paroxetina.(45) Uno studio multicentrico randomizzato in doppio cieco con l’obbiettivo di confrontare l’efficacia e la tollerabilità della Mirtazapina e del Citalopram in pazienti depressi, ha osservato un aumento dell’appetito e del peso corporeo significativo nei pazienti trattati con Mirtazapina (rispettivamente del 8,8% e del 15,3%) rispetto ai pazienti trattati con Citalopram (1,5% e 4,5%).(46) Laimer et al hanno studiato l’influenza del trattamento con Mirtazapina sul peso corporeo, sulla massa grassa, sul metabolismo del glucosio, sul profilo lipoproteico e sulla Leptina mettendo a confronto due gruppi di donne di cui uno era composto da sette donne depresse mentre l’altro era composto da sette donne volontarie mentalmente e fisicamente sane (gruppo di controllo). I risultati hanno confermato che la Mirtazapina causa aumenti significativi del peso corporeo (da una media di 63,6 ± 13,1 kg a un peso corporeo medio di 66,6 ± 11,9 kg), della massa grassa e delle concentrazioni di Leptina nei pazienti trattati.(52) Contrariamente agli studi svolti sull’uomo non ci sono stati collegamenti diretti tra lo sviluppo dell’obesità e la Mirtazapina secondo lo studio controllato sugli animali condotto da Jeon, Joe e Kee (24) i qiali hanno usato i ratti OLETF (Otsuka Long-Evans Tokushima Fatty) per la loro ricerca.
Bupropione
Tre studi clinici randomizzati hanno preso in esame gli effetti del Bupropione sulle variazioni del peso corporeo. In tutti questi studi, i ricercatori hanno concluso che il Bupropione può indurre la perdita di peso nei pazienti trattati. (53-55) In uno studio randomizzato in doppio cieco, la media della perdita di peso è risultata modesta con trattamento a base di Bupropione SR a lungo termine in pazienti con depressione aumentata in risposta all’aumento del peso corporeo al basale.(53) Un altro studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo ha valutato l’efficacia del Bupropione SR nella riduzione del peso e dei sintomi depressivi in 422 adulti obesi con sintomi depressivi. Dopo 26 settimane, il gruppo Bupropione SR ha perso in media una maggiore quantità di peso (4,4 kg: 4,6% del peso basale) rispetto al placebo (1,7 kg: 1,8% del peso basale).(54) Nel terzo studio in doppio cieco controllato con placebo della durata di 48 settimane ha mostrato che il Bupropione SR in combinazione con un programma di intervento sullo stile di vita era associato a una riduzione del peso corporeo dose correlata.(55)
Trazodone
In uno studio randomizzato in doppio cieco della durata di 6 settimane è stato osservato che il Trazodone causava una leggera perdita di peso nei pazienti sovrappeso.(17)
Discussione conclusiva
Una significativa associazione positiva è stata riportata tra depressione e obesità in modo più marcato tra le donne.(56) L’aumento di peso corporeo è un noto effetto collaterale legato a numerosi farmaci psicotropi, inclusi gli antidepressivi.(57) Si sono riportati a conoscenza del “grande pubblico” dei vari e, spesso, contrastanti effetti dei diversi antidepressivi sulle variazioni del peso corporeo. I TCA e in particolare l’Amitriptilina, come abbiamo visto, sono noti tra gli antidepressivi per causare l’aumento di peso.(18,58,59) E’ stato anche riportato che l’Amitriptilina è stata ripetutamente segnalata come un induttore dell’aumento di peso negli studi clinici. (12,13,16-22) Tutti i TCA sembrano causare un aumento di peso negli studi clinici eccetto la Protriptilina che ha causato una perdita di peso quando somministrata a pazienti con depressione maggiore.(35) Si pensava che gli SSRI inducessero la perdita di peso piuttosto che l’aumento del peso in contrasto con i TCA.(58) Come osservabile tra i risultati, la maggior parte degli studi riporta una perdita di peso nei pazienti che assumevano la Fluoxetina, tuttavia in alcuni studi è stato riscontrato un aumento di peso con l’uso di questo farmaco. Gli stessi risultati incoerenti si applicano alla Paroxetina.
L’aumento di peso è stato anche osservato negli studi nei quali si sono presi in esame altri SSRI tra cui il Citalopram e l’Ecitalopram. Le ricerche disponibili per gli IMAO hanno riportato un aumento di peso correlato alla Fenelzina e alla Tranilcipromina, ma non è stato osservato alcun cambiamento significativo di peso con il Moclebomide. Il Bupropione è l’unico antidepressivo del quale tutti gli studi confermano l’induzione della perdita di peso in pazienti depressi trattati con questo farmaco.
Alcuni studi hanno suggerito che l’aumento di peso può essere almeno in parte legato alla remissione dalla depressione stessa e non necessariamente causato dai farmaci antidepressivi. (25, 60) A sostegno di questa ipotesi vi è la comune diminuzione dell’appetito durante gli stati depressivi. Tuttavia ci sono prove che gli antidepressivi causano un aumento di peso in pazienti con altri disturbi psichiatrici come ADHD (32) ed emicrania (22).
Anche la durata del trattamento è un fattore importante che può influire sui risultati. Un discreto numero di studi ha riportato differenze tra gli effetti a breve e a lungo termine degli antidepressivi sulle variazioni del peso corporeo. Michelson et al (41) hanno riportato la perdita di peso nei pazienti trattati con Fluoxetina durante la fase acuta (4 settimane) e un aumento di peso negli stessi pazienti durante la fase continua. Un altro studio comprendente 10 trial clinici che hanno esaminato gli effetti della Doluxetina ha riscontrato sia una perdita che un aumento di peso rispettivamente nella fase acuta e cronica, ma in tassi modesti e, quindi, non significativi. La categorizzazione delle fasi acute, croniche, di breve durata, a lungo termine, non è la stessa tra i diversi studi considerando gli effetti dipendenti dal tempo d’assunzione degli antidepressivi e aggiunge maggiori difficoltà nell’interpretazione dei risultati quando si vuole avere un punto di vista generale sulla questione.
L’età è un altro fattore che sembra influenzare la relazione tra farmaci antidepressivi e aumento del peso corporeo. Come osservato nello studio condotto da Corman et al. (34), la Nortriptilina non ha causato un marcato aumento di peso nei pazienti geriatrici e ha causato anche una perdita di peso in alcuni dei soggetti trattati. Contrariamente a ciò, nei pazienti non anziani il trattamento con Nortriptilina ha causato un marcato aumento di peso.(18,21,32)
Il peso basale dei pazienti trattati sembra essere un altro fattore di una certa importanza nel risultato delle variazioni di peso dovute all’uso dei farmaci antidepressivi. Ciò è stato confermato in uno studio clinico condotto da Orzack et al (42) che ha rilevato un aumento di peso tra i pazienti normopeso e una perdita di peso nei pazienti sovrappeso quando trattati con Fluoxetina.
I risultati incoerenti per gli effetti degli antidepressivi sui cambiamenti del peso corporeo che sono stati riportati nella letteratura disponibile possono essere riconducibili al concomitante uso di un farmaco psicotropico da parte dei pazienti psichiatrici co-morbosi. Questo fenomeno può anche essere dovuto a diversi fattori, come le dimensioni del campione e la durata degli studi, o come la sensibilità genetica all’azione del farmaco.
Come ormai risaputo, l’obesità e il sovrappeso possono portare a gravi problemi di salute come lo sviluppo di malattie cardiovascolari. Inoltre, l’aumento di peso causato dai farmaci antidepressivi è una delle principali ragioni per la non conformità dei pazienti con il trattamento e lo scarso esito dello stesso; la lotta all’aumento di peso una volta che si è verificato può essere molto difficile. (57) Quindi comprendere i meccanismi sottostanti che contribuiscono all’effetto degli antidepressivi sui cambiamenti del peso corporeo sono importanti.
I risultati degli studi svolti su animali, come di consueto, non sono sempre coerenti con quelli clinici. Per esempio l’Amitriptilina e la Mirtazapina non hanno avuto alcuna associazione diretta con l’obesità nei ratti e infatti è stato suggerito da Jeon et al (24) che questi due antidepressivi possono regolare i livelli circolanti di Adiponectina e i recettori dell’Adiponectina. L’Amitriptilina è risultata essere anche inefficace nell’aumentare l’assunzione giornaliera di cibo e il peso corporeo dei ratti in una serie di studi sperimentali nonostante l’applicazione di vari dosaggi, vie di somministrazione, composizione della dieta e appetibilità (23). La Clomipramina è stata somministrata cronicamente a ratti wistar maschi esposti a procedura di autoselezione dei macronutrienti portando ad una riduzione del consumo di cibo e dell’aumento del peso corporeo (26) mentre, similmente a quanto osservato con la Amitriptilina e Mirtazapina, la Clomipramina è stata osservata indurre un aumento di peso negli studi clinici. (12,25) Interpretare i risultati degli studi sugli animali per l’induzione dell’ obesità in seguito a somministrazione di farmaci antidepressivi è una sfida anche quando si considerano le situazioni di vita reale per l’uomo. Mastronardi et al (30) hanno tentato di simulare una situazione simile a quella di pazienti con stress/depressione ed esposizione a farmaci antidepressivi a breve termine con un consumo di una dieta ricca di grassi nei ratti. Per ottenere questo tipo di esperimento, i ratti sono stati sottoposti a ripetuti stress (RRS) e al farmaco antidepressivo nel breve termine dopo un lungo periodo di esposizione a una dieta ricca di grassi (30). I risultati hanno mostrato effetti di aumento di peso anche dopo la sospensione degli antidepressivi Imipramina e Fluoxetina nei ratti che hanno tollerato il fenomeno di sensibilizzazione tempo-dipendente. (30) In un altro studio sperimentale su base animale la Desipramina ha provocato da prima la perdita di peso nei ratti e, successivamente, a portato all’aumento di peso nelle fasi continue di trattamento della durata di oltre 3 mesi.(31)
È noto che molte sostanze regolatrici influenzano l’appetito, inclusi neurotrasmettitori come la Noradrenalina, il 5HT, i Neuropeptidi come la Colecistochinina, l’Ormone di Rilascio della Corticotropina, il neuropeptide Y, gli oppioidi e altri peptidi ormone-simili come l’Enterostatina, la Bombesina, l’Amilina e Leptina (59 ). È stato riportato che i TCA sono associati con l’aumento di peso a causa della loro azione antagonizzante sui recettori H1 protratta nel tempo. (61) È stato suggerito che l’induzione dell’aumento di peso osservata con l’uso del Citalopram possa anche essere dovuta alla sua elevata affinità con i recettori H1. Alcuni ricercatori hanno tentato di individuare il ruolo della Leptina nell’associazione tra antidepressivi e obesità.(21, 22) Berilgen et al (22) hanno scoperto che l’Amitriptilina può causare resistenza alla Leptina attraverso meccanismi diversi determinando quindi un aumento dei livelli serici di Leptina e del BMI. Al contrario, in un altro studio l’Amitriptilina non ha causato alcun aumento dei livelli di Leptina mentre induceva un aumento di peso.(21) I meccanismi sottostanti all’aumento di peso dipendente dall’assunzione di farmaci antidepressivi non sono ancora ben compresi e sono necessari ulteriori studi al fine di indagare il ruolo dei neurotrasmettitori e di altri possibili fattori che contribuiscono al induzione dell’aumento di peso causato dall’uso di farmaci antidepressivi. Le aree di controversia, come gli ovvi risultati opposti tra gli studi svolti su animali e gli studi svolti su esseri umani, o i diversi effetti dipendenti dal tempo di esposizione agli antidepressivi sui cambiamenti del peso corporeo, dovranno essere affrontati in studi futuri. Indagini continue e più precise sul fattore tempo-dipendente nell’influenza degli antidepressivi sull’aumento del peso corporeo, come è già stato fatto per gli antipsicotici (61), potrà aiutare a chiarire il ruolo della durata del trattamento con questa classe di farmaci nell’induzione di tale fenomeno. Indagare sugli effetti di altri antidepressivi che non sono stati inclusi negli studi precedenti come la Doxepina, la Trimipramina, la Venlafaxina, il Nefazodone e la Amoxapina è un altro problema che dovrà essere considerato attraverso pertinenti studi futuri riguardanti l’associazione dei farmaci antidepressivi e il cambiamento del peso corporeo.
Gabriel Bellizzi
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L’Acido Alfa-Lipoico può dare sollievo ai soggetti che soffrono della sindrome del tunnel carpale. Ricercatori messicani hanno osservato che una dose pari a 600mg di ALA si presta bene a tal fine.(1) Il loro studio è interessante anche per gli atleti supplementari chimicamente. Infatti, circa un terzo degli utilizzatori dell’ormone della crescita sviluppa la sindrome del tunnel carpale.
Gli atleti supplementati farmacologicamente e che usano alte dosi di GH hanno buone possibilità di sviluppare la sindrome del tunnel carpale. Questo accade perché il GH promuove, direttamente ed indirettamente, nella mano e nel polso, la crescita del tessuto osseo, dei muscoli, dei legamenti e del tessuto connettivo. Nel polso, come ben sappiamo, passa il nervo mediano attraverso il tunnel carpale (o canale carpale).
Quando il tunnel carpale si restringe e il nervo mediano viene compresso, si sviluppa formicolio, intorpidimento e spesso dolore. E questa condizione viene chiama sindrome del tunnel carpale.
Quando tale sindrome è causato dall’uso di GH esogeno, il rimedio è semplice: cessare la somministrazione del composto. Secondo quanto riportato nella letteratura medica (2), la sindrome del tunnel carpale causato dall’uso di GH esogeno tende a scomparire nel giro di poche settimane dopo la cessata somministrazione. Ma se la sindrome del tunnel carpale è causata da un’altro fattore- e ce ne sono molti – allora l’unica soluzione risulta essere l’intervento chirurgico.
Nel 2014, ricercatori italiani hanno pubblicato uno studio nel quale si riportava che un integrazione giornaliera composta da 300mg di Acido Alfa-Lipoico, 500mg di Curcumina Fitosoma e vitamine del gruppo B ha alleviato i sintomi della sindrome del tunnel carpale.(3) Gli autori dello studio hanno usavano l’Axin C, un prodotto della Farmacondo.
Anche i ricercatori messicani, affiliati all’Università di Guadalajara, hanno cercato di alleviare i sintomi legati alla sindrome del tunnel carpale con una supplementazione OTC, ma optando per un approccio più semplice. Hanno somministrato a 10 pazienti 600mg di Acido Alfa-Lipoico ogni giorno per 3 mesi. Hanno usato la versione più economica, vale a dire la miscela racemica composta dal 50% di enantiomeri R e dal 50% di enantiomeri S.
Altri nove pazienti hanno ricevuto un placebo.
Dopo un mese di integrazione, i pazienti hanno subito l’intervento chirurgico. Successivamente, hanno continuato a utilizzare la supplementazione di ALA per altri 2 mesi.
Poco prima dell’inizio della supplementazione [BASAL], dopo un mese di supplementazione [PRESURGERY] e un mese dopo la cessazione della supplementazione [FINAL], i medici hanno fatto compilare ai pazienti il Boston Questionnaire. Si tratta di un questionario con il quale i medici determinano la gravità della sindrome del tunnel carpale.
Nel mese precedente l’operazione, l’Acido Alfa-Lipoico ha ridotto la gravità dei sintomi. Tre mesi dopo l’intervento, il gruppo trattato con Acido Alfa-Lipoico presentava meno disturbi rispetto al gruppo placebo. Questo suggerisce che la supplementazione con ALA ha accelerato la guarigione del nervo mediano danneggiato.
Il gruppo trattato con Acido Alfa-Lipoico ha mostrato miglioramenti nei parametri sensoriali e motori, un’osservazione che potrebbe essere spiegata dai meccanismi multimodali dell’Acido Alfa-Lipoico legati alla sua azione antiossidante, agendo come “spazzino” dei radicali liberi e come rigeneratore delle vitamine C ed E, le quali contribuiscono alla riduzione dello stress ossidativo nel nervo periferico.
I risultati ottenuti suggeriscono anche che l’Acido Alfa-Lipoico può accelerare il recupero della funzione del nervo mediano, poiché il punteggio del Boston Questionnaire è migliorato più repentinamente nel gruppo trattato con Acido Alfa-Lipoico rispetto al gruppo placebo.
In conclusione, i ricercatori affermano di aver scoperto che l’Acido Alfa-Lipoico ha un effetto neuroprotettivo, somministrato per 1 mese prima della decompressione chirurgica e per 3 mesi dopo l’intervento.