Introduzione:

Sono ormai venti anni che la moda della così detta “Paleo Diet” si è diffusa da oltre oceano. Diversi libri sono stati scritti per cercare di accreditarla e altrettanti siti, anche “nostrani”, ne hanno osannato le presunte proprietà vendendola come l’unica vera dieta del genere umano impegnato nella sua “corsa evolutiva”.

Ma come stanno in realtà le cose? Su cosa si poggia questa ipotesi figlia del relativismo e dello scientismo? Cercherò di rispondervi nel modo più completo possibile in questo articolo che, ne sono quasi certo, e di ciò non me ne stupisco, darà fastidio ai “guru”, loro adepti e materialisti cronici. Non vi agitate troppo, che battere i piedi per terra non cambia la realtà delle cose.

Introduzione alla “Paleo Diet”:

La Dieta Paleolitica, Dieta Paleo, Dieta dell’Uomo delle Caverne o Dieta dell’Età della Pietra [Paleo Diet] è una metodica alimentare di moda che consiste nel consumo di alimenti i quali, secondo i suoi sostenitori, rispecchiano quelli mangiati dagli esseri umani durante il Paleolitico.[1]

La dieta in questione, quindi, evita gli alimenti trasformati e include tipicamente verdure, frutta, noci, radici e carne ed esclude latticini, cereali, zucchero, legumi, oli lavorati, sale, alcol e caffè.[2] Storicamente possiamo far risalire le idee alla base di questa dieta alle diete “primitive” sostenute nel XIX secolo, figlie del nascente darwinismo. Negli anni ’70 Walter L. Voegtlin ha reso popolare una dieta “dell’età della pietra” incentrata sulla carne; nel 21° secolo i libri best-seller di Loren Cordain hanno reso popolare la Paleo Diet.[3]

Notare che nel 2019 l’industria della paleo-dieta aveva un valore di circa 500 milioni di dollari.

I sostenitori di questa dieta la promuovono come un modo, a volte anche definendolo l’unico modo, per migliorare la salute.[4] Ci sono alcune prove del fatto che seguirla può portare a miglioramenti nella composizione corporea e nel metabolismo rispetto alla tipica dieta occidentale[5] o rispetto alle diete raccomandate da alcune linee guida nutrizionali europee, ma i risultati provengono da studi con un design scarso.[6] D’altra parte, seguire questo tipo di dieta può portare a carenze nutrizionali, come un apporto inadeguato di calcio, e gli effetti collaterali possono includere debolezza, diarrea e mal di testa.[7]

Adrienne Rose Johnson scrive che l’idea che la dieta primitiva fosse superiore alle abitudini alimentari attuali risale agli anni ’90 del XIX secolo, con scrittori come Emmet Densmore e John Harvey Kellogg. Densmore proclamava che “il pane è il bastone della morte”, mentre Kellogg sosteneva una dieta a base di amidi e cereali in accordo con “i modi e i gusti dei nostri antenati primitivi”.[8] Arnold DeVries sostenne una prima versione della dieta paleolitica nel suo libro del 1952, Primitive Man and His Food.[9] Nel 1958, Richard Mackarness scrisse Eat Fat and Grow Slim (Mangia grasso e cresci magro), che proponeva una dieta “dell’età della pietra” a basso contenuto di carboidrati.[10]

John Harvey Kellogg (26 febbraio 1852 – 14 dicembre 1943) è stato un medico, nutrizionista, inventore, eugenista e uomo d’affari statunitense. Kellogg ha dedicato gli ultimi 30 anni della sua vita alla promozione dell’eugenetica. Ha co-fondato la Race Betterment Foundation, ha co-organizzato diverse conferenze nazionali sul miglioramento della razza e ha tentato di creare un “registro eugenetico”. Oltre a scoraggiare la “mescolanza razziale”, Kellogg era favorevole alla sterilizzazione delle “persone mentalmente difettose”, promuovendo un programma eugenetico mentre lavorava nel Michigan Board of Health e contribuendo a inserire l’autorizzazione a sterilizzare le persone ritenute “mentalmente difettose” nelle leggi statali durante il suo mandato. Kellogg è noto soprattutto per l’invenzione dei famosi corn flakes, i cereali per la prima colazione. Lo sviluppo dei cereali in fiocchi nel 1894 è stato variamente descritto dalle persone coinvolte: Ella Eaton Kellogg, John Harvey Kellogg, suo fratello minore Will Keith Kellogg e altri membri della famiglia.

Nel suo libro del 1975 The Stone Age Diet (La dieta dell’età della pietra), il gastroenterologo Walter L. Voegtlin ha sostenuto una dieta a base di carne, con basso apporto di verdure e cibi amidacei, basandosi sulla sua dichiarazione che gli esseri umani erano “esclusivamente mangiatori di carne” fino a 10.000 anni fa.[11]

Nel 1985 Stanley Boyd Eaton e Melvin Konner pubblicarono un articolo controverso sul New England Journal of Medicine, proponendo che gli esseri umani moderni fossero biologicamente molto simili ai loro antenati primitivi e quindi “geneticamente programmati” per consumare cibi pre-agricoli. Eaton e Konner proposero l'”ipotesi della discordanza”, secondo la quale la mancata corrispondenza tra la dieta moderna e la biologia umana avrebbe dato origine a malattie legate allo stile di vita, come l’obesità e il diabete.[12]

La dieta ha iniziato a diventare popolare nel XXI secolo, dove ha attratto un seguito in gran parte basato su Internet, utilizzando siti web, forum e social media.[13]

Le idee di questa dieta sono state ulteriormente divulgate da Loren Cordain, uno scienziato della salute con un dottorato in educazione fisica, che ha registrato il marchio “The Paleo Diet” e che ha scritto un libro del 2002 con questo titolo.[14]

Nel 2012 la dieta paleolitica è stata descritta come una delle “ultime tendenze” in fatto di diete, in base alla popolarità dei libri dietetici che la riguardano;[15] nel 2013 e nel 2014 la dieta paleolitica è stata il metodo di perdita di peso più cercato su Google.[16]

La dieta paleolitica o paleo è talvolta indicata anche come dieta dell’uomo delle caverne o dell’età della pietra.[17]

La base della dieta è una rivisitazione di ciò che ipoteticamente mangiavano gli uomini del paleolitico e i diversi proponenti raccomandano composizioni dietetiche diverse. Eaton e Konner, ad esempio, hanno scritto nel 1988, insieme a Marjorie Shostak, il libro The Paleolithic Prescription, che descrive una dieta al 65% a base vegetale. Questo non è tipico delle diete paleo di più recente concezione; quella di Loren Cordain, probabilmente la più popolare, enfatizza invece i prodotti animali ed evita gli alimenti trasformati.[18] I sostenitori della dieta ammettono che la moderna dieta paleolitica non può essere una fedele ricreazione di ciò che mangiavano gli uomini del paleolitico, e mirano invece a “tradurre” tale dieta in un contesto moderno, evitando pratiche storiche probabili come il cannibalismo.[19]

Gli alimenti che sono stati descritti come ammissibili includono:

  • “verdure, frutta, noci, radici, carne e organi”;[20]
  • “verdure (compresi gli ortaggi a radice), frutta (compresi gli oli di frutta, come l’olio d’oliva, l’olio di cocco e l’olio di palma), noci, pesce, carne e uova; esclude i latticini, gli alimenti a base di cereali, i legumi, gli zuccheri extra e i prodotti nutrizionali dell’industria (compresi i grassi e i carboidrati raffinati)”;[21] e
  • “evita gli alimenti trasformati ed enfatizza il consumo di verdura, frutta, noci e semi, uova e carni magre”.[22]

La dieta vieta il consumo di tutti i prodotti caseari. Questo perché la mungitura non esisteva fino all’addomesticamento degli animali dopo il Paleolitico.[23]

L’adozione della dieta paleolitica presuppone che gli esseri umani moderni possano riprodurre la dieta dei cacciatori-raccoglitori. La biologa molecolare Marion Nestle sostiene che “la conoscenza delle proporzioni relative di alimenti animali e vegetali nella dieta dei primi esseri umani è circostanziale, incompleta e discutibile e che non ci sono dati sufficienti per identificare la composizione di una dieta ottimale geneticamente determinata”. Le prove relative alle diete paleolitiche sono meglio interpretate come sostegno all’idea che le diete basate in gran parte su alimenti vegetali promuovano la salute e la longevità, almeno in condizioni di abbondanza di cibo e di attività fisica”[24] Le idee sulla dieta e sull’alimentazione paleolitica sono al massimo ipotetiche.[25]

I dati per il libro di Cordain provengono solo da sei gruppi di cacciatori-raccoglitori contemporanei, che vivono principalmente in habitat marginali. Uno degli studi è stato condotto sui Kung, la cui dieta è stata registrata per un solo mese, e uno sugli Inuit.[26] A causa di queste limitazioni, il libro è stato criticato perché dipinge un quadro incompleto della dieta degli esseri umani del Paleolitico. [27] È stato osservato che la logica della dieta non tiene adeguatamente conto del fatto che, a causa delle pressioni della selezione artificiale, la maggior parte delle piante e degli animali domestici moderni differiscono drasticamente dai loro antenati paleolitici; allo stesso modo, i loro profili nutrizionali sono molto diversi dalle loro controparti antiche. Per esempio, le mandorle selvatiche producono livelli potenzialmente letali di cianuro, ma questa caratteristica è stata eliminata dalle varietà domestiche grazie alla selezione artificiale. Molte verdure, come i broccoli, non esistevano nel Paleolitico; broccoli, cavoli, cavolfiori e cavoli sono cultivar moderne dell’antica specie Brassica oleracea.[28]

Cercare di elaborare una dieta ideale studiando i cacciatori-raccoglitori contemporanei è difficile a causa delle grandi disparità esistenti; ad esempio, la percentuale di calorie di origine animale varia dal 25% per i Gwi dell’Africa meridionale al 99% per i Nunamiut dell’Alaska. I discendenti di popolazioni con diete diverse hanno adattamenti genetici diversi, come la capacità di digerire gli zuccheri degli alimenti amidacei. I cacciatori-raccoglitori moderni tendono a fare molto più esercizio fisico dei moderni impiegati, proteggendoli da malattie cardiache e diabete, anche se i cibi moderni altamente trasformati contribuiscono al diabete quando queste popolazioni si trasferiscono nelle città.[29]

Una review del 2018 sulla dieta delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ha rilevato che le disposizioni dietetiche della dieta palelotica si basavano su ricerche discutibili ed erano “difficili da riconciliare con studi etnografici e nutrizionali più dettagliati sulla dieta dei cacciatori-raccoglitori”.[30]

I ricercatori hanno proposto che gli amidi cotti soddisfacessero le richieste energetiche di un cervello di dimensioni crescenti, basandosi sulle variazioni nel numero di copie dei geni che codificano l’amilasi. Peccato però che il paragone delle copie geniche è stato fatto su modelli attuali. Cosa c’entra? Ci arriveremo…

Paleo Dieta e impatto sulla salute e composizione corporea:

La dieta paleolitica è controversa in parte a causa delle esagerate affermazioni sulla salute fatte dai suoi sostenitori.[31] In generale, la qualità metodologica della ricerca sulla dieta è stata da scarsa a moderata.[32]

Gli aspetti della dieta paleolitica che comportano il consumo di meno alimenti trasformati e di meno zucchero e sale sono coerenti con i consigli alimentari tradizionali.[33] Le diete con un modello alimentare paleolitico hanno alcune somiglianze con le diete etniche tradizionali, come la dieta mediterranea, che sono risultate più salutari della dieta occidentale. Tuttavia, la dieta paleolitica, in mancanza di una adeguata supplementazione, può portare a carenze nutrizionali.[34][35]

Ci sono alcune prove che la dieta aiuti realmente a perdere peso, con tutta probabilità a causa della maggiore sazietà degli alimenti tipicamente consumati.[36] Uno studio condotto su donne obese in postmenopausa ha riscontrato miglioramenti nella perdita di peso e di grasso dopo sei mesi, ma i benefici sono cessati dopo 24 mesi; gli effetti collaterali tra i partecipanti includevano “debolezza, diarrea e mal di testa”. Come qualsiasi altro regime dietetico, la dieta paleolitica porta a una perdita di peso a causa della diminuzione complessiva dell’apporto calorico, piuttosto che per una caratteristica particolare della dieta stessa.[37]

Non ci sono prove valide che la dieta paleolitica riduca il rischio di malattie cardiovascolari o di sindrome metabolica rispetto ad altri regimi ipo o normocalorici.[38] Al 2014 non c’erano prove che la dieta paleolitica fosse efficace nel trattamento delle malattie infiammatorie intestinali.[39]

La dieta paleolitica, per certi versi simile alla dieta Atkins, incoraggia il consumo si di grandi quantità di carne rossa, ma allevata al pascolo (Grass Fed). Peccato però, che per la maggior parte delle persone sarebbe economicamente difficile mantenere un regime alimentare di questo tipo basandosi su carni dal costo decisamente più elevato della concorrenza intensiva. Per questo motivo la maggior parte delle persone ripiegano su carni rosse da allevamento intensivo o comunque alimentate a granaglie con la caratteristica di essere carni ad alto contenuto di grassi saturi. Questo ha un effetto negativo sulla salute a lungo termine, poiché studi medici hanno dimostrato che può portare a un aumento dell’incidenza di malattie cardiovascolari.[40]

Ricercatori della Universidade Estadual do Ceara, in Brasile, hanno raccolto nella letteratura scientifica 11 studi che confrontavano l’effetto di una Dieta Paleo sul peso corporeo con una dieta considerata sana, ma più o meno nella norma come tipologie di alimenti consumati. Gli studi sono durati da poche settimane a qualche anno.

Occasionalmente i soggetti in esame erano persone sane, ma nella maggior parte dei casi soffrivano di una condizione cronica come il sovrappeso, l’obesità o il diabete di tipo 2.

I ricercatori hanno unito i risultati degli studi e li hanno analizzati nuovamente.

I soggetti che hanno seguito una Dieta Paleo hanno perso 3,52Kg in più rispetto ai soggetti dei gruppi di controllo, dove i soggetti seguivano una dieta con alimenti consuetudinari. A volte questa dieta regolare era una dieta mediterranea, a volte una “dieta nordica”.

Nessuna superiorità dimostrata nemmeno questa volta. Infatti, gli stessi ricercatori sottolineano che l’ipotesi più plausibile per spiegare l’effetto della dieta paleolitica sulla perdita di peso, è il suo effetto saziante, come verificato da Bligh et al., 2015, che hanno testato l’effetto acuto dei pasti basati sulla dieta paleolitica sui marcatori biochimici di sazietà rispetto a una dieta basata su linee guida. Vi ricordo però, che il “gioco” dell’effetto saziante è adattativo e l’asticella si sposta progressivamente: tradotto in soldoni, per saziarvi avrete bisogno di più cibo mano a mano che passerà il tempo sotto questo tipo di regime alimentare.

Ventiquattro uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni erano sani e avevano un BMI compreso tra 18 e 27. Le concentrazioni di glucagone-1 e del peptide YY sono aumentate significativamente nell’arco di 180 minuti con l’uso di diverse formulazioni della dieta paleolitica rispetto alla dieta di controllo… per l’appunto…

Tanto per mettere ulteriormente i piedi per terra, i ricercatori della Emory University negli Stati Uniti hanno utilizzato i dati di 21.423 americani raccolti per lo studio intitolato Reasons for Geographic and Racial Differences in Stroke. All’inizio dello studio i partecipanti avevano più di 45 anni e i ricercatori li hanno seguiti per una media di sei anni.

I ricercatori hanno diviso due volte i partecipanti in cinque gruppi di uguali dimensioni in base alla loro dieta. In una prima occasione hanno esaminato in che misura la dieta dei partecipanti fosse conforme ai criteri della dieta mediterranea, mentre nell’altra hanno valutato in che misura la loro dieta assomigliasse alla dieta paleo.

Q1: meno simile alla dieta mediterranea/paleo, Q5: più simile alla dieta mediterranea/paleo.

Più la dieta dei partecipanti era conforme ai criteri della dieta paleo e della dieta mediterranea, minore era la probabilità di morire durante lo studio. La dieta mediterranea è apparsa leggermente migliore della dieta paleo.

Sembra che sia la dieta mediterranea che la dieta paleo riducono le probabilità di morire per malattie cardiovascolari, cancro e altre cause. La figura seguente mostra i risultati relativi al cancro. Ancora una volta, la dieta mediterranea sembra offrire una protezione leggermente maggiore rispetto alla dieta paleo.

In conclusione, i risultati raccolti dai ricercatori, insieme a quelli di studi precedenti, suggeriscono che le diete più simili a quelle paleolitiche o mediterranee possono essere associate a un minor rischio di mortalità per tutte le cause, specifica per il sistema cardiovascolare, specifica per il cancro e per altre cause non legate a infortuni o incidenti.

Certo, nemmeno questo studio può essere considerato privo di limitazioni, ma ci mostra nuovamente il fatto che la quota calorica è alla base seguita da alimenti di qualità elevata. Nulla di nuovo sul fronte alimentare…

La “prova del 9” della genetica:

La motivazione dichiarata per la dieta paleolitica è che i geni umani dei tempi moderni sono invariati rispetto a quelli di 10.000 anni fa e che la dieta di allora è quindi la più adatta agli esseri umani di oggi.[41] Loren Cordain ha descritto la dieta paleo come “la sola e unica dieta che si adatta idealmente al nostro patrimonio genetico”.[42]

L’argomentazione è che gli esseri umani moderni non sono stati in grado di adattarsi alle nuove circostanze.[43] Secondo Cordain, prima della rivoluzione agricola, le diete dei cacciatori-raccoglitori includevano raramente cereali e ottenere latte dagli animali selvatici sarebbe stato “quasi impossibile”. [44] I sostenitori della dieta sostengono che l’aumento delle malattie del benessere dopo l’avvento dell’agricoltura sia stato causato da questi cambiamenti nella dieta, ma altri hanno controbattuto che potrebbe essere che i cacciatori-raccoglitori pre-agricoli non soffrivano delle malattie del benessere perché non vivevano abbastanza a lungo per svilupparle.[45]

Secondo il modello dell’ipotesi della discordanza evolutiva, “molte malattie croniche e condizioni degenerative evidenti nelle moderne popolazioni occidentali sono sorte a causa di una mancata corrispondenza tra i geni dell’età della pietra e gli stili di vita moderni”[46] I sostenitori della moderna dieta paleo hanno formato le loro raccomandazioni alimentari sulla base di questa ipotesi. Essi sostengono che gli esseri umani moderni dovrebbero seguire una dieta nutrizionalmente più vicina a quella dei loro antenati paleolitici.

La discordanza evolutiva è incompleta, poiché si basa principalmente sulla comprensione genetica della dieta umana e su un modello unico di dieta ancestrale umana, senza tenere conto della flessibilità e della variabilità dei comportamenti alimentari umani nel tempo. [Gli studi condotti su diverse popolazioni in tutto il mondo dimostrano che gli esseri umani possono vivere in salute con un’ampia varietà di diete e che si sono evoluti come mangiatori flessibili.[47] La persistenza della lattasi, che conferisce la tolleranza al lattosio fino all’età adulta, è un esempio di come alcuni esseri umani si siano adattati all’introduzione dei latticini nella loro dieta. Sebbene l’introduzione di cereali, latticini e legumi durante la rivoluzione neolitica possa aver avuto alcuni effetti negativi sull’uomo moderno, se l’uomo non fosse stato adattabile dal punto di vista nutrizionale, questi sviluppi tecnologici sarebbero stati abbandonati.[48]

Dopo la pubblicazione dell’articolo di Eaton e Konner nel 1985, l’analisi del DNA dei resti umani “primitivi” ha fornito la prova che gli esseri umani in evoluzione si adattavano continuamente a nuove diete, mettendo così in discussione l’ipotesi alla base della dieta paleotica.[49] La biologa evoluzionista Marlene Zuk scrive che l’idea che il nostro patrimonio genetico odierno corrisponda a quello dei nostri antenati è mal concepita e che nel corso di un dibattito Cordain è stato “colto alla sprovvista” quando gli è stato detto che 10.000 anni erano “un lasso di tempo sufficiente” per un cambiamento evolutivo nelle capacità digestive umane. Su questa base Zuk respinge l’affermazione di Cordain secondo cui la dieta paleo è “l’unica e sola dieta che si adatta al nostro patrimonio genetico”.[50]

Il paleoantropologo Peter Ungar ha scritto che la dieta paleo è un “mito”, sia perché invoca un’unica dieta adatta quando in realtà gli esseri umani sono sempre stati un “lavoro in corso”, sia perché la dieta è sempre stata varia perché gli esseri umani erano ampiamente distribuiti sul pianeta.[51]

La genetista antropologica Anne C. Stone ha affermato che gli esseri umani si sono adattati negli ultimi 10.000 anni in risposta a cambiamenti radicali nella dieta. Nel 2016 ha dichiarato: “Mi fa impazzire quando le persone che seguono la dieta paleo dicono che abbiamo smesso di evolverci: non è così”.[52]

Melvin Konner ha affermato che la sfida all’ipotesi non è molto significativa, poiché le vere sfide al non adattamento umano si sono verificate con l’aumento di alimenti sempre più raffinati negli ultimi 300 anni.[53]

Le affermazioni esposte, però, peccano di incompletezza ed eccessiva speculazione basata su congetture filosofiche più che su dati di fatto osservabili e quantificabili. Fortunatamente, per venire in contro a questa lacuna gli studi sulla genetica delle popolazioni ci mettono di fronte ad un dato realmente constatabile: l’entropia genetica.

John Sanford è il maggiore esponente della teoria dell’entropia genetica. E’ professore alla Cornell University da oltre 30 anni. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università del Wisconsin nel settore della selezione e della genetica delle piante. Mentre era professore alla Cornell, John ha formato studenti laureati e condotto ricerche genetiche presso la New York State Agricultural Experiment Station di Geneva, NY. Alla Cornell, John ha allevato nuove varietà di colture utilizzando la riproduzione convenzionale e si è poi impegnato a fondo nel campo emergente dell’ingegneria genetica vegetale. John ha pubblicato oltre 100 pubblicazioni scientifiche e ha ottenuto diverse decine di brevetti. I suoi contributi scientifici più significativi nella prima metà della sua carriera hanno riguardato tre invenzioni: il processo biolistico (“gene gun”), la resistenza ai patogeni e l’immunizzazione genetica. Gran parte delle colture transgeniche (in termini di numero e superficie) coltivate oggi nel mondo sono state ingegnerizzate geneticamente utilizzando la tecnologia della “pistola genetica” sviluppata da John e dai suoi collaboratori. John ha anche avviato due imprese biotecnologiche derivate dalla sua ricerca, Biolistics, Inc. e Sanford Scientific, Inc. John occupa ancora una posizione alla Cornell (professore associato di cortesia), ma si è ampiamente ritirato dalla Cornell e ha avviato una piccola organizzazione no-profit, la Feed My Sheep Foundation (FMS). Attraverso la FMS, John ha condotto ricerche nelle aree della genetica teorica e della bioinformatica negli ultimi 14 anni. Con un team qualificato di ricercatori, John ha prodotto un programma di simulazione numerica all’avanguardia chiamato Mendel’s Account. Mendel’s Account è la prima simulazione numerica completa e biologicamente realistica del processo di mutazione/selezione. Questo programma tiene traccia delle mutazioni che si accumulano nelle popolazioni digitali in modo biologicamente realistico. È uno strumento essenziale per comprendere i limiti del processo darwiniano. Mendel’s Accountant può essere scaricato gratuitamente all’indirizzo MendelsAccountant.info. John collabora anche con Ratio Christi (ratiochristi.org/), dove si occupa di apologetica cristiana. John è anche presidente di Logos Research Associates (vedi http://www.logosresearchassociates.org/). Le pubblicazioni scientifiche di John sono elencate su http://hort.cals.cornell.edu/people/john-sanford.

Ma che cos’è l’entropia genetica? In breve, si tratta della degenerazione genetica degli esseri viventi. L’entropia genetica è la rottura sistematica dei sistemi informativi biologici interni che rendono possibile la vita. L’entropia genetica deriva dalle mutazioni genetiche, che sono errori di replicazione del DNA. Le mutazioni erodono sistematicamente le informazioni che codificano le numerose funzioni essenziali della vita. Le informazioni biologiche sono costituite da un’ampia serie di specifiche e le mutazioni casuali le stravolgono sistematicamente, distruggendo gradualmente ma inesorabilmente le istruzioni di programmazione essenziali per la vita.

L’entropia genetica è più facilmente comprensibile a livello del singolo individuo. Nel nostro corpo ci sono circa 3 nuove mutazioni (errori di replicazione) a ogni divisione cellulare. Le nostre cellule diventano ogni giorno più mutanti e più divergenti le une dalle altre. Quando siamo vecchi, ciascuna delle nostre cellule ha accumulato decine di migliaia di mutazioni. L’accumulo di mutazioni è il motivo principale per cui invecchiamo e moriamo. Questo livello di entropia genetica è facile da capire.

Schema esemplificativo delle mutazioni geniche ad ogni divisione cellulare [mitosi].

C’è un altro livello di entropia genetica che ci riguarda come popolazione. Poiché le mutazioni si verificano in tutte le nostre cellule, comprese quelle riproduttive, molte delle nuove mutazioni vengono trasmesse ai nostri figli. Quindi, le mutazioni si accumulano continuamente nella popolazione, a ogni generazione

Ogni generazione è più mutante della precedente. Quindi non solo subiamo una degenerazione genetica a livello personale, ma anche come popolazione. Si tratta essenzialmente di un’evoluzione che va nella direzione inversa. La selezione naturale può rallentare, ma non fermare, l’entropia genetica a livello di popolazione.

L’informazione genetica degenera inesorabilmente. Questo è ovviamente vero a livello umano, ma è altrettanto vero nel regno biologico (contrariamente a quanto sostengono gli evoluzionisti). La definizione più tecnica di entropia, utilizzata da ingegneri e fisici, è semplicemente una misura del disordine. Tecnicamente, a prescindere da qualsiasi intervento esterno, tutti i sistemi funzionali degenerano, passando costantemente dall’ordine al disordine (perché l’entropia aumenta sempre in qualsiasi sistema chiuso). Per il biologo è più utile utilizzare l’uso più generale del termine entropia, che indica che, poiché l’entropia fisica è in continuo aumento (il disordine è sempre in aumento), esiste una tendenza universale di tutti i sistemi informativi biologici a degenerare nel tempo, a prescindere da un intervento intelligente. Quindi, l’adattamento a cambiamenti nella dieta è correlato all’integrità del genoma: più è integro e più possibilità ha l’individuo di sopravvivere a cambi ambientali che incidono anche sul tipo di alimentazione.

Nota: se per caso qualcuno avesse il dubbio che l’aumento dell’aspettativa di vita dimostri un processo evolutivo, lasciate che vi chiarisca il punto. È ovviamente vero che la longevità umana è aumentata negli ultimi secoli, ma ciò non è dovuto a processi evolutivi. È chiaramente dovuto al miglioramento della dieta, dei servizi igienici e della medicina moderna. Abbiamo capito come evitare che le persone muoiano durante l’infanzia e abbiamo allungato l’aspettativa di vita per coloro che contraggono molte malattie associate all’età senile. La media è quindi aumentata. La durata massima possibile della vita non è aumentata. Questo è un concetto semplice.

E qui entra in gioco l’epigenetica…

Con il termine epigenetica ci si riferisce a tutte quelle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA.

I cambiamenti epigenetici sono cambiamenti mitotici e/o meiotici ereditabili nella funzione genica non derivanti da cambiamenti nella sequenza del DNA, che portano alla propagazione di cambiamenti ereditabili nel fenotipo [54]. La regolazione epigenetica può essere relativamente stabile (come l’inattivazione dell’X, l’imprinting, il silenziamento o le attività di confine) o dinamica [55-56]. Quando la regolazione epigenetica è dinamica, viene spesso descritta come memoria epigenetica: un cambiamento ereditabile nell’espressione genica o nel comportamento indotto da uno stimolo precedente. Lo stimolo può essere di tipo ambientale. La memoria avviene attraverso molteplici meccanismi, ma spesso richiede cambiamenti basati sulla cromatina, come la metilazione del DNA, le modifiche degli istoni o l’incorporazione di istoni varianti [57]. La metilazione del DNA può modellare la propria eredità attraverso la metilazione dei siti emimilati dopo la replicazione del DNA da parte delle DNA metilasi di mantenimento [58]. Tuttavia, la maggior parte delle modificazioni istoniche non è ereditabile e la misura in cui una di esse possa modellare la propria eredità è ancora alquanto controversa.

Ricapitolando, si può dire che il termine è usato per descrivere:

  • cambi ereditabili del funzionamento genetico avvenuti durante lo sviluppo embrionale;
  • tratti ereditabili risultanti da un cambiamento genetico che non cambia la sequenza nucleotidica del DNA;
  • cambiamenti genetici che avvengono durante lo sviluppo embrionale causati da stimoli di cellule circostanti;
  • tutti i cambiamenti genetici che sono stimolati dall’ambiente, inclusi quelli al di fuori dell’organismo.

Molti dei cambiamenti negli organismi che osserviamo sono in realtà frutto della loro capacità intrinseca e preesistente di rispondere in modo predeterminato all’ambiente al fine di adattarsi e sopravvivere, e dunque non sono cambiamenti dovuti ad un aumento di informazione genetica (condizione necessaria dell’evoluzionismo). Questa solida tesi è stata elaborata dallo scienziato Lee Spetner e chiamata “NREH” (Non Random Evolutionary Hypothesis, ovvero “ipotesi evoluzionistica non causale”).

Cambiamenti ambientali possono causare in un genoma di un individuo alterazioni ereditabili che portano ad un adattamento dell’organismo a quello specifico cambio ambientale. Questi cambi epigenetici sono presenti sia in piante che in animali, che hanno costruiti al loro interno la precisa risposta a quel preciso stimolo esterno. Questi cambiamenti già presenti in potenza nell’organismo, permettono un rapido adattamento dell’organismo o di più organismi ad un cambiamento ambientale.

I cambi epigenetici non sono casuali; l’abilità dell’organismo di rispondere e adattarsi all’ambiente richiede sia che l’organismo sia in grado di percepire un cambiamento dell’ambiente e sia che esso abbia un meccanismo che, attivato dalla percezione di uno stimolo esterno, porti all’attivazione di un gene latente (per semplificare: di una porzione di DNA “spenta/non attivata”) che a sua volta porta ad un cambio fenotipico (l’insieme delle caratteristiche fisiche, come l’anatomia, la fisiologia, il comportamento, la biochimica) che darà un vantaggio all’organismo nel nuovo ambiente.

I meccanismi cellulari che accendono e spengono i geni sono ben noti grazie agli studi di Jacob e Monod (Jacob e Monod 1961) sul batterio E. Coli: la cellula è in grado di produrre certi enzimi solo nel momento in cui essi sono necessitati. Quando il batterio percepisce la presenza di molecole di zucchero che necessita, attiva sia i geni che codificano per gli enzimi che permettono di trasportare lo zucchero nella cellula e sia i geni che codificano per la sua scomposizione. Quando la cellula non necessità più di queste molecole essa spegne i geni, un tempo accesi per l’assimilazione dello zucchero. 

Questo esempio di accensione di geni dovuta alla presenza di un meccanismo già esistente all’interno della cellula è detto “a breve termine” poiché non sono cambi duraturi (Shapiro 2011). Esistono comunque meccanismi interni agli organismi capaci di controllare l’espressione del genoma modificandolo per un lungo periodo, tale modifica può durare ed essere presente anche nella prole, come conseguenza di modifiche ambientali durevoli, diventando così un controllo dell’espressione dei geni a “lungo termine”. Questo meccanismo a lungo termine fu studiato e teorizzato da Shapiro (1997, 1999, 2011), che sostiene che le cellule abbiano meccanismi integrati che permettono loro di adattarsi velocemente all’ambiente. Il processo dei meccanismi già integrati è predeterminato e gli effetti sono prevedibili e le variazioni limitate.

Negli ultimi anni sono stati scoperti i trasposoni da Barbara McClintock (1941, 1950, 1955, 1956, 1983), che le diedero il Premio Nobel per la medicina nel 1983. I trasposoni sono elementi genetici che permettono rimescolamenti, non casuali, del DNA sotto controllo cellulare. Grazie a questi rimescolamenti, parti di DNA possono spostarsi da una parte all’altra del genoma o essere anche eliminati. Questi trasposoni, rimescolando diverse zone, possono attivare dei geni latenti, chiamati “cryptic genes”. Questi rimescolamenti possono avere diverse cause, tra cui, come sostiene McClinton (1984) grazie al suo studio sulle piante, lo stress.

Lo stress è infatti sia in grado di alterare il fenotipo che il genotipo di un organismo. In campo biologico lo stress è inteso come la condizione ambientale che minaccia la stabilità dell’organismo; può quindi derivare ad esempio da una mancanza di cibo, da una temperatura eccessivamente alta o eccessivamente bassa. I casi documentati in cui questo rimescolamento han portato all’attivazione di geni latenti sono numerosi (Shapiro 1992, 2009, Hall 1999). Nello specifico Slack (2006) e Hersh (2004) hanno riportato che lo stress, modificando il genoma del batterio E. Coli, può creare degli effetti di adattamento predeterminati. Questo stress può creare modifiche adattive sia nelle cellule somatiche, diventando quindi non trasmissibili, che nei gameti (trasmissibili).

Questi cambiamenti genetici, poiché indotti dall’ambiente, possono provocare modifiche a numerose quantità di organismi in quello stesso ambiente, e solo nel momento del bisogno (poiché sono conseguenza di uno stimolo), mentre sarebbe assai improbabile, e oltretutto mai osservato, che proprio nel momento del bisogno, non solo avvenisse una mutazione causale proprio funzionale al nuovo adattamento, ma anche che si presentasse in più organismi contemporaneamente, sarebbe come se causalmente in diverse copie dello stesso libro (che rappresenta il DNA) venisse cambiata esattamente la stessa lettera (che rappresenta la mutazione), proprio nel periodo in cui quel cambiamento era necessitato.

Queste riconfigurazioni genetiche sono mediate da sezioni ripetitive di DNA, i trasposoni, che sono la principale causa di questi architettati rimescolamenti; sono chiamati “geni saltellanti” perché possono cambiare i loro collocamenti e le posizioni di altre sezioni all’interno del genoma e possono duplicarsi (Shapiro 1999).

Esistono inoltre numerose specifiche sequenze di DNA comuni a tutti gli organismi. 

Se queste sequenze fossero geni (ovvero codificassero le proteine) allora la loro utilità sarebbe evidente; ma la maggior parte di queste sequenze non codificano per alcun gene. Queste sequenze, chiamate CNG (“conserved nongenic” sequence), sono definite semplicemente sequenze conservate se, su almeno 100 coppie di basi del DNA il 70% sono uguali, e sono definite ultra conservate se su almeno 200 coppie di basi del DNA sono uguali al 100%. Per capire la funzione di queste sequenze, diversi scienziati hanno provato a togliere tali sequenze per veder che effetto creasse la loro assenza all’interno dell’organismo. Lo scienziato Nadav Ahituv fece tale esperimento: tolse le sequenze CNG ultra conservate comuni sia all’uomo che al topo (la cavia era il topo) e vide che il topo era perfettamente normale, come se queste sequenze non avessero alcuna utilità. Lee Spetner suggerisce che è ragionevole credere che queste sequenze siano collegate all’abilita di mettere in atto cambi epigenetici e offre evidenza sperimentale per tale tesi, citando il seguente esperimento: furono tolti ben 6000 geni, uno per volta, dal lievito (Hillenmeyer et al. 2008). Di questi 6000 geni solo il 34% erano funzionali e necessari alla sopravvivenza del lievito. Del 66% restante che sembrava non avere alcuna funzione, ben il 63% mostrò la sua fondamentale importanza in adattamenti indotti da cambiamenti ambientali. Il 3% rimanente non riscontrò alcuna funzione, ed è possibile che il motivo è che l’organismo non abbia subito tutti gli stimoli ambientali specifici all’attivazione di quel 3%.

Lievito visto al microscopio

Torniamo adesso ai “cryptic genes”, (o geni criptici) che, come detto prima, sono geni latenti in grado di essere attivati da cambi epigenetici (Hall 1983). Questi geni sono uguali ai geni ordinari se non per il fatto che sono resi latenti da un silenziatore, ovvero un segmento di DNA che impedisce la loro espressione. Il silenziatore può essere “disattivato” con l’inserimento di una sezione di DNA (The Evolution Revolution, Lee Spetner, pp.52) o il cancellamento di una sezione di DNA (The Evolution Revolution, Lee Spetner, pp.53). Il tutto sotto stretta regolazione e controllo cellulare. Al giorno d’oggi sappiamo che il 90% dei batteri E. Coli possiede dei geni criptici per gli zuccheri del beta-glucosio (Hall e Betts 1987, Hall 1999). E’ stato riportato che i geni criptici codificano per diversi enzimi come “’l’acetolattato sintasi” (Mukergji e Mahadevan 1997); è stato scoperto che la proteina Hsp90, in presenza di alte temperature, è la causa dell’espressione dei geni criptici nel moscerino Drosofila (Rutherford e Lindquist 1998) e che i geni criptici causano resistenze antibiotiche (Hall 2004). Nel caso delle resistenze antibiotiche, i geni criptici che generalmente nel plasmidio si attivano grazie ad un cambio epigenetico, sono attivi solo in presenza dell’antibiotico (è quindi l’antibiotico stesso che causa la resistenza cellulare all’antibiotico). Questo cambio epigenetico disattiva il silenziatore, rendendo il batterio più adatto all’ambiente (senza che esso si sia evoluto in termini darwinistici e dunque senza alcun aumento di informazione).

Altro caso esemplare di cambio epigenetico è il “batterio del nylon”. Il Nylon fu inventato nel 1935 e nel 1975 fu scoperto che un tipo di batterio, il Flavobacterium, era presente in grandi quantità in un deposito di scarti di nylon di una fabbrica giapponese. Questi batteri erano in grado di vivere in questi scarti, che ovviamente erano relativamente nuove (il nylon non esiste in natura) alla biosfera del pianeta. Dato che il Giappone iniziò a produrre Nylon solo dal 1951 questi batteri ebbero solo 20 anni a disposizione per adattarsi e acquisire le nuove abilità richieste per l’assimilazione del Nylon. Fu trovato che questi batteri avevano ben tre nuovi enzimi che insieme permettevano al batterio di metabolizzare gli sprechi del Nylon. La cosa importante da notare e che questi nuovi enzimi furono testati contro 100 molecole simili al Nylon e questi enzimi non furono in grado di catalizzare alcuna reazione metabolica con loro (Kinoshita et al. 1977, 1981). Risulta evidente quindi che questi tre enzimi risultarono come conseguenza di questo nuovo specifico ambiente di scarti di Nylon che mise sotto stress questi batteri minacciando la loro sopravvivenza. Una delle componenti di questi scarti è il “Acd” (6-aminohexanoic acid cyclic dimer), ovvero una combinazione di due catene molecolari formate da sei atomi di carbonio e un atomo di idrogeno. Queste due catene sono legate tra di loro in due punti (per i dettagli tecnici “The Evolution Revolution p.54-56). Il primo di questi tre nuovi enzimi chiamato E1, spezza la catena in un punto rompendo così il primo legame, tramite il processo dell’idrolisi, il secondo enzima, E2, sempre con il processo dell’idrolisi, spezza l’ultimo dei due legami staccando così interamente le due catene. Questo processo quindi permette al batterio di metabolizzare il Nylon. I due geni, che codificano per questi due enzimi, sono chiamati nylA e nylB e la loro sequenza è stata scoperta (Kinoshita 1977, 1981). Fu scoperto anche il terzo enzima, E3, il suo gene nylC e la sua funzione relativa al metabolismo del Nylon (Kakudo 1993).

Flavobacterium

Evidentemente la nascita di questi enzimi non poteva venire da un processo evolutivo, poiché, specialmente nel caso dei primi due enzimi, l’uno, senza l’altro, non avrebbe conferito nessuna utilità all’organismo e all’assimilazione dell’Acd, e credere che questi due enzimi si siano formati causalmente insieme è irragionevole.

Fu scoperto infatti che un altro tipo di batterio oltre al Flavobacterium subì un cambio genetico che gli permise di acquisire la capacità di nutrirsi con il Nylon. La quasi uguaglianza (99%) dei due enzimi E1 tra i due tipi di batteri, mostra come la nascita di questi enzimi non venisse da un processo evolutivo. Risulta quindi chiaramente irrazionale credere che casualmente siano venuti gli stessi enzimi quasi identici, mentre è più ragionevole credere che questa somiglianza sia dovuta ad una comune capacità interna degli organismi di adattarsi in modo predeterminato ad un certo stimolo, che in questo caso è appunto lo stesso, il Nylon. Ma oltre a questo c’è un evidenza ancora più schiacciante: lo scienziato Negoro e la sua equipe dell’Università di Osaka fecero un esperimento con dei batteri Pseudomonas che non potevano metabolizzare il Nylon e lì fece proliferare in un ambiente in cui, come unica fonte di cibo, era presente il Nylon (Prijambada 1995). Negoro prese dei batteri Pseudomonas dalla Nuova Zelanda (cosicché le probabilità di una contaminazione dei batteri giapponesi Flavobacterium della fabbrica giapponese fosse nulla). Questi batteri vennero quindi introdotti in ambiente in cui, per produrre carbone e nitrogeno era presente solo l’Adc (una componente del Nylon). In pochi mesi una parte della popolazione di batteri apparve possedere i geni nylA e nylB (che codificano per gli enzimi E1 e E2) permettendo così a questi batteri di potersi nutrire di Adc. La brevità di tempo (pochi mesi) con il quale questi batteri si sono adattati è incredibile e ci permette di capire come questo cambiamento non sia frutto di processi evolutivi, che ipoteticamente operano in sezioni di tempo ben più lunghe.

Pseudomonas aeruginosa 

E’ evidente quindi, come l’ambiente abbia fatto scattare un cambiamento già esistente in potenza nell’organismo.
Cambi epigenetici che portano all’adattamento non sono presenti solo in organismi relativamente semplici, come i batteri sopracitati, ma anche in forme di vita ben più complesse. Ad esempio lo scienziato Iwama studiò i cambi epigenetici nei pesci (Iwama 1998) individuando tre fasi del loro adattamento. La prima fase consiste nel rilascio di ormoni, come la catecolamina e l’ACTH, nel sangue a causa di una situazione che causa stress nell’organismo (come ad esempio la presenza di predatori); nella seconda fase i sensori cellulari attivati dagli ormoni possono attivare l’attività di diversi enzimi (Cohen 1988) che possono modificare sia il comportamento che la fisionomia. Questa seconda fase può attivare o spegnere dei geni. Questi cambiamenti genetici possono manifestarsi nella vita di un individuo o in una intera popolazione.

Nello specifico i cambi epigenetici possono funzionare mediante questi fenomeni:

  • Stimoli ambientali causano stress nell’organismo
  • Lo stress può causare rimescolamenti genetici che possono rendere l’organismo più adatto all’ambiente
  • Lo stress può indurre la produzione di ormoni, i quali possono raggiungere ogni cellula nel corpo
  • Gli ormoni definiti come “messaggeri primi” possono attivare i sensori sulle cellule. Questa attivazione innesca un meccanismo all’interno della cellula che porta il messaggio al DNA
  • Una volta arrivato al DNA, quest’ultimo può modificarsi
  • Questi cambiamenti genetici possono cambiare la funzione chimica delle cellule, che a sua volta può cambiare la fisionomia e i comportamenti dell’organismo. Questi cambiamenti possono rendere più adatto l’organismo

Ma la possibilità di riuscita di un adattamento epigenetico è dipendente dall’integrità genica [vedi entropia genetica].

In uno studio controllato alcuni fringuelli furono inseriti in una isola in cui precedentemente non c’erano fringuelli (Conant 1988, Pimm 1988). Nel 1967, circa 100 fringuelli identici furono rimossi da una Riserva del Governo degli Stati Uniti D’America nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, e furono portati circa a 300 miglia di distanza in un gruppo di quattro piccoli atolli (gruppetti di isole vulcaniche) che distavano circa dieci miglia gli uni dagli altri, e non ospitavano nessun fringuello precedentemente.
Diciassette anni dopo, quando gli uccelli furono controllati, furono trovati una varietà di forme dei becchi, e adattamenti nelle varie nicchie, sia nel comportamento e sia per la forma del becco e i muscoli interessati di conseguenza. Questo esperimento risultò una “versione ultra accelerata” dello scenario convenzionale dell’evoluzione dei fringuelli delle Galapagos teorizzata da Darwin. Quindi, la diversificazione di questi uccelli può essere attribuita a una reazione pre-costruita nel genoma, presente in modo latente nei fringuelli, e pronta ad essere attivata ad uno stimolo ambientale, proprio come postulato dal NREH di Lee Spetner. Ogni specie di fringuello è adattata alla sua nicchia, con la forma del suo becco, muscoli, comportamento, e altri caratteri fenotipici appropriati alla sua nicchia. Il segnale biochimico che evoca il cambiamento della forma del becco è stato scoperto essere una proteina chiamata Bmp4 (Bone morphogenetic protein 4). Durante lo sviluppo embrionale, più Bmp4 è prodotto e più ampio e profondo sarà il becco (Abzhanov et al. 2004). Se l’ipotesi è corretta allora gli ormoni azionati da stimoli ambientali influenzano lo sviluppo embrionale, poi quegli ormoni inducono i fattori della crescita. Il meccanismo costruito all’interno del NREH permette alla popolazione di uccelli di adattarsi ad un nuovo ambiente velocemente ed efficientemente senza doversi appigliare al lento e dispendioso processo Neo-Darwinista di mutazioni casuali e selezione naturale. Un adattamento evoluzionista, che impiegherebbe milioni di anni per aspettare l’errore giusto di copiatura del DNA e la selezione naturale, può essere compiuto in una singola generazione attraverso il meccanismo del NREH, ovvero dei cambiamenti epigenetici.

Potrei proseguire con molti altri esempi ma al fine di non dilungarmi troppo proseguiamo con altre confutazioni.

L’intolleranza al Lattosio:

Una delle argomentazioni utilizzate dai seguaci della dieta paleo in riferimento al mancato adattamento evolutivo umano ad alimenti “moderni” è l’intolleranza al Lattosio. Secondo loro essa dimostrerebbe il fatto che l’uomo non è “fatto” per consumare prodotti lattiero-caseari.

Come risaputo, l’intolleranza al Lattosio consiste nell’incapacità dell’organismo di digerire completamente lo zucchero presente nel latte e nei suoi derivati ed è causata da una insufficiente dell’enzima lattasi.

La maggior parte dei neonati umani produce un’ampia quantità di lattasi per la digestione del latte. Le cellule che rivestono l’intestino tenue producono l’enzima lattasi, che scinde il lattosio, lo zucchero disaccaride caratteristico del latte, nei monosaccaridi glucosio e galattosio. Questi zuccheri sono facilmente digeribili (assorbiti) dall’uomo.

Tuttavia, quando la lattasi è carente, come in una parte degli esseri umani adulti [59] e degli animali, il lattosio non può essere scomposto e assorbito nell’intestino tenue. Il lattosio passa quindi all’intestino crasso dove i batteri residenti lo fermentano, generando gas: da qui il disagio di nausea/gonfiore/flatulenza avvertito dalle persone “carenti di lattasi” dopo aver bevuto il latte o consumato suoi derivati.

Molte persone “intolleranti al lattosio” sono in grado di consumare alcuni prodotti caseari, come il formaggio, senza avvertire i sintomi debilitanti che si manifestano dopo il consumo di latte. Ciò è dovuto alla scarsa presenza di lattosio in questi prodotti fermentati, in quanto i batteri (ad esempio i lattobacilli) hanno già fermentato la maggior parte del lattosio presente nel latte originale in acido lattico, con il gas sottoprodotto rilasciato in modo innocuo nell’atmosfera.

L’intolleranza al lattosio è riconducibile a due differenti polimorfismi genetici, un polimorfismo T>C nella posizione -13910 e un polimorfismo A>G in posizione -22018, nella regione regolatrice del gene della lattasi (gene LTC). Quando presenti in entrambe le copie del gene tali polimorfismi possono portare a una ridotta espressione dell’enzima nei microvilli dell’intestino tenue, e quindi a una carenza di lattasi. Questa ridotta espressione fa sì che con il passare degli anni il lattosio sia digerito sempre meno. La trasmissione ereditaria di questi polimorfismi è autosomica recessiva, cioè solo chi ha entrambe le copie del gene mutate (omozigosi) è affetto da questo tipo di intolleranza.

Inoltre, si è ipotizzato che diverse mutazioni possono impedire l’interruzione della produzione di lattasi dopo lo svezzamento. La mutazione che conferisce la persistenza della lattasi nei nordeuropei [60] è diversa da quella presente nei sub-sahariani che sono persistenti alla lattasi.[61] I ricercatori hanno identificato tre diverse mutazioni (nello stesso tratto di DNA della variante europea) in varie popolazioni africane in Tanzania, Kenya e Sudan.[62]

E’ stato dimostrato che le popolazioni dell’Africa orientale presentano mutazioni genetiche che conferiscono la persistenza della lattasi; alcuni di loro hanno addirittura tutte e tre le mutazioni finora scoperte in quella regione.[63]

I ricercatori hanno valutato che la variante più comune si è sviluppata “da 3.000 a 7.000 anni fa”. L’antropologa dell’Università della California Diane Gifford-Gonzalez afferma che la scoperta di mutazioni multiple recenti sorte in modo indipendente sta cambiando il modo di pensare alla storia dell’uomo: “Fino a quando i genetisti non hanno contribuito ai dati, il resto di noi ha sempre pensato che l’evoluzione avvenisse in modo molto lento e graduale “[64].

Si noti che questi cambiamenti genetici non sono “evoluzione” nel senso di aggiunta di informazioni nel genoma dell’uomo, poiché i cambiamenti sono in discesa, cioè l’informazione è stata persa (ad esempio, il normale meccanismo di spegnimento e riaccensione della produzione di lattasi dopo lo svezzamento).[65] Piuttosto, nel migliore dei casi si tratta di un esempio di selezione, come lo stesso Hirschhorn ha riconosciuto: “La persistenza della lattasi è sempre stata un esempio da manuale di selezione, e ora lo sarà in un modo completamente diverso”.[64]

Un altro risultato inaspettato dell’indagine sulle mutazioni nel consumo di latte nell’Africa orientale è stata la scoperta che gli Hadza della Tanzania “mostrano un livello sorprendentemente alto di persistenza della lattasi, pur avendo pochissimo a che fare con il bestiame”. Ciò ha portato a questo suggerimento evolutivamente radicale: “Una possibilità è che, sebbene oggi siano principalmente cacciatori-raccoglitori, i loro antenati potrebbero essere stati pastori”. Sebbene questa idea vada contro l’ordine evolutivo tradizionale. Inoltre, non è la prima volta che gli evoluzionisti devono confrontarsi con l’evidenza che i popoli cacciatori-raccoglitori di oggi in passato praticavano l’agricoltura o l’allevamento, contrariamente alle loro ipotesi.[66]

Sebbene la perdita della capacità di disattivare e riattivare per necessità la produzione di lattasi dopo lo svezzamento rappresenti una perdita di informazioni (cioè un cambiamento in discesa), la mutazione conferisce alcuni evidenti vantaggi nelle aree in cui il latte è disponibile come fonte alimentare primaria. Il “costo” della mutazione, cioè l’energia supplementare necessaria per continuare a produrre lattasi oltre l’infanzia, sarebbe più che compensato dalla possibilità di estrarre in modo sicuro l’energia e i nutrienti presenti nel latte.[67]

Quindi, anche in questo caso nessun mancato adattamento ma semplice perdita di “flessibilità” genica.

La celiachia:

Un altra classe di alimenti vietati nella Paleo Dieta sono i cereali e derivati. Tralasciando l’idiozia secondo la quale siano alimenti obesogeni, gli adepti paleo si aggrappano alla celiachia come ad una prova schiacciante della loro tesi alimentare.

La celiachia è una patologia cronica autoimmune che provoca una reazione immunitaria dell’organismo all’assunzione di glutine: un complesso proteico presente in molti cereali, come orzo, frumento e segale. In Italia oltre 200.000 pazienti soffrono di celiachia, ma, tenendo conto dei casi non diagnosticati (per esempio gli asintomatici), il numero effettivo si aggirerebbe sui 600.000. La reazione immunitaria, se non diagnosticata e curata, scatena uninfiammazione a livello del piccolo intestino (intestino tenue) che impedisce il corretto assorbimento dei nutrienti compromettendo la salute del paziente interessato.

Nei soggetti celiaci mangiare glutine scatena una risposta immunitaria che colpisce  l’intestino tenue; il persistere di questa risposta produce un’infiammazione che danneggia le strutture fondamentali  dell’intestino tenue, i villi intestinali,  causandone un appiattimento e di conseguenza un’incapacità di  assorbire i nutrienti (malassorbimento). Il danno intestinale può causare perdita di peso, gonfiore e talvolta diarrea. Il malassorbimento in particolare di vitamine e oligoelementi può causare danni a diversi organi tra cui sistema nervoso, osso, apparato riproduttivo, sistema sanguigno. Non esiste una cura per la celiachia, ma seguire una scrupolosa alimentazione senza glutine può aiutare a gestire i sintomi e promuovere la guarigione intestinale.

La celiachia è una patologia multifattoriale: la sua comparsa è caratterizzata da un fattore ambientale (l’assunzione del glutine) e un fattore genetico. Oltre alla predisposizione genetica potrebbero giocano  un ruolo per la sua comparsa anche altri fattori quali per esempio un’infezione intestinale da rotavirus nel corso dell’infanzia, o fattori fisiologici come le infezioni gastroenteriche o la gravidanza. La celiachia si associa spesso ad altre malattie autoimmuni (diabete mellito di tipo 1, artrite reumatoide, tiroidite) e a sindromi genetiche (Down, Turner).

I geni HLA – DQ2, DQ8 e DR4 sono, infatti, i principali determinanti della suscettibilità genetica della celiachia. Più del 90% delle persone con celiachia presentano uno di questi genotipi, DQ2 o DQ8, contro il 25% nella popolazione generale.

L’esame dei casi di celiachia raccolti nel tempo mostrano che i tassi di incidenza sono in aumento, con un incremento medio annuo del 7,5% negli ultimi decenni. E questo aumento non è correlato semplicemente all’aumento dei test per la diagnosi di celiachia, ma anche dai sintomi in aumento che portano il paziente a sottoporsi a controlli specifici.[68]

Quindi? Anche in questo caso mutazioni e incapacità adattative… niente mancato adattamento temporale…

Gli antinutrienti:

Gli antinutrienti sono composti naturali o sintetici che interferiscono con l’assorbimento dei nutrienti causando anche infiammazione.[69-1] Gli studi sulla nutrizione si concentrano sugli antinutrienti comunemente presenti nelle fonti alimentari e nelle bevande. Gli antinutrienti possono assumere la forma di farmaci, di sostanze chimiche naturalmente presenti nelle fonti alimentari, di proteine o di un consumo eccessivo dei nutrienti stessi. Gli antinutrienti possono agire legandosi a vitamine e minerali, impedendone l’assorbimento o inibendo gli enzimi.

L’acido fitico (anione fitato deprotonato nella foto) è un antinutriente che interferisce con l’assorbimento dei minerali dalla dieta.

Nel corso della storia, l’uomo ha selezionato le colture per ridurre gli antinutrienti e ha sviluppato processi di cottura per rimuoverli dalle materie prime alimentari e aumentare la biodisponibilità dei nutrienti, in particolare negli alimenti di base come la manioca.

Nella Paleo Dieta, viene proibito il consumo di legumi, sia per la solita ipotesi del “tempo insufficiente per adattarsi al loro consumo” ma soprattutto per la presenza dei così detti antinutrienti.

Peccato, però, che l’unico motivo per il quale tali antinutrienti ci impedirebbero il consumo di legumi è se li consumassimo crudi o la versione giovane, consumabile con tutto il baccello (o frutto), ossia i fagiolini. Infatti, la cottura di almeno 30 minuti è in grado di distruggere in gran parte gli antinutrienti presenti nei legumi. Saponine, acido fitico ed inibitori delle proteasi vengono in gran parte neutralizzati o comunque ridotti tra l’ammollo dei legumi e la successiva cottura. 

Anche durante la germinazione vengono “digerite” sostanze come l’acido fitico, dal momento che in tale processo si attivano enzimi idrolitici che degradano tale molecola. 

Comunque sia, oggi sappiamo che questi anti nutrienti apportano anche dei benefici per la salute. L’acido fitico, ad esempio, è protettivo nei confronti del tumore al colon, saponine e lectine sono ipocolesterolemizzanti.

Un “mito paleo” facilmente confutabile…

Conclusioni:

Prima di concludere è giusto che io chiarisca un punto con voi lettori: chiunque leggendo abbia tacciato e liquidato il sottoscritto come “creazionista” dovrebbe riflettere su tre punti: 1°) è una conclusione sbrigativa e sterile, degna di chi non ha argomentazioni e 2°) io sono un teorico dell’ID [Intelligence Design]. Cos’è l’ID? Vi lascio il link per approfondire: https://www.ciid.science/.

Ora, i fatti riportati valgono per tutte quelle diete così dette “evolutive” [Geo Paleo Diet, EVO Diet, Dieta a Zona ecc…]. A questo punto, a patto che il lettore non sia o tardo o un isterico negazionista del vero, dovreste aver compreso che tali traballanti ipotesi alimentari si basano su altrettanto traballanti, ma comode, ipotesi scientiste. L’unica ragione per la quale un regime paleo funziona nel far perdere peso ad un soggetto è la base ipocalorica! L’eliminazione di intere categorie alimentari non c’entra se non a facilitare inizialmente il taglio calorico!

Ovviamente, se un individuo si è nutrito all'”occidentale” [prodotti da forno confezionati, salumi, bevande zuccherate ecc…] per poi passare ad un regime paleo è ovvio che ne gioverà, ma non per i motivi esposti dai propagandatori. L’aumento del consumo di verdura e frutta, quindi di fibre, vitamine e minerali, un adeguato consumo proteico e di grassi polinsaturi giova sicuramente alla salute. Si da il caso, però, che tali benefici li otteniamo anche con una dieta varia e che presenta cereali, legumi, latticini magri ecc… Anche con una (vera) Dieta Mediterranea la quale sembra ancora incompresa dai “paleo fans”.

Ah, quasi dimenticavo, il sovrappeso e l’obesità sono dovuti di base ad un eccesso calorico connesso ad una dieta composta in prevalenza da cibi densamente calorici e dalla sedentarietà!

Contra factum non valet argumentum!

Gabriel Bellizzi [CEO BioGenTech]

Riferimenti:

  1. de Menezes et al. 2019: “The Paleolithic diet has been gaining ground in the field of fad diets. It is based on food patterns of human Paleolithic ancestors, about 2.6 million to 10,000 years ago, a period that precedes the advent of industrial agriculture and is different from today’s modern society”.
  2. British Dietetic Association 2014 – “The Paleo diet (also known as the Paleolithic Diet, the Caveman diet and the Stone Age Diet) is a diet where only foods presumed to be available to Neanderthals in the prehistoric era are consumed and all other foods, such as dairy products, grains, sugar, legumes, ‘processed’ oils, salt, and others like alcohol or coffee are excluded.”
  3. Ask EN 2010Johnson 2015Fitzgerald 2014.
  4. NHS 2008.
  5. Katz & Meller 2014.
  6. Manheimer et al. 2015.
  7. For calcium deficicency see Tarantino, Citro & Finelli 2015for other risks see Obert et al. 2017.
  8. Johnson 2015.
  9. Newton 2019, p. 102.
  10. Hill 1996Smith 2015, p. 117: “Mackarness, who founded the first British National Health Service clinical ecology clinic in Basingstoke, pioneered the so-called Stone Age Diet, in the belief that humans had not evolved to consume foods, including wheat and milk, developed since Paleolithic times (in fact, today’s weight-reduction version of Mackarness’s Stone Age diet is called the ‘Paleo diet’).”
  11. Zuk 2013, pp. 111–112.
  12. Johnson 2015.
  13. Chang & Nowell 2016.
  14. Ask EN 2010. For Cordain’s qualifications see Chang & Nowell 2016. For trademarking see Lowe 2014.
  15. Cunningham 2012.
  16.  Chang & Nowell 2016.
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  18. Chang & Nowell 2016.
  19. Kolbert 2014.
  20. Tarantino, Citro & Finelli 2015.
  21. Manheimer et al. 2015.
  22. Katz & Meller 2014.
  23. Longe 2008, p. 180: “No dairy products are allowed while on this diet. This means no milk, cheese, butter, or anything else that comes from milking animals. This is because milking did not occur until animals were domesticated, sometime after the Paleolithic age. Eggs are allowed however, because Paleolithic man would probably have found eggs in bird’s nests during foraging and hunting.”
  24. Nestle 2000.
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  31.  Pitt 2016Kolbert 2014 : “[…] proponents of the paleo diet make all sorts of claims for its efficacy. Some contend that it cures autoimmune diseases, others that it reverses diabetes.”
  32. Pitt 2016Obert et al. 2017.
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  39. Hou, Lee & Lewis 2014: “Even less evidence exists for the efficacy of the SCD, FODMAP, or Paleo diets. Furthermore, the practicality of maintaining these interventions over long periods of time is doubtful.”
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  58. Zhu B, Reinberg D. Epigenetic inheritance: uncontested? Cell Res. 2011;21:435–441.
  59. It is has been estimated that over 70% of the world’s population has low lactase with resultant lactose intolerance. Gilat, T., Kuhn, R., Gelman, E. and Mizrahy, O., Lactase deficiency in Jewish communities in Israel, Digestive Diseases 15(10):895–904, 1970.
  60. Enattah, N. and 5 others, Identification of a variant associated with adult-type hypolactasia, Nature Genetics 30:233–237, 2002. Return to text.
  61. Mulcare, C. and 8 others, The T Allele of a Single-Nucleotide Polymorphism 13.9 kb Upstream of the Lactase Gene (LCT) (C–13.9kbT) Does Not Predict or Cause the Lactase-Persistence Phenotype in Africans, American Journal of Human Genetics 74(6):1102–1110, 2004. Return to text.
  62. The 470 individuals tested came from 43 ethnic groups, including the Maasai and the Beja people. The researchers labelled the three SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms) as G/C–14010, T/G–13915 and C/G–13907, adding that “These SNPs originated on different haplotype backgrounds from the European C/T–13910 SNP and from each other.” Tishkoff, S.A. and 18 others, Convergent adaptation of human lactase persistence in Africa and Europe, Nature Genetics 39:31–40, 2006. Return to text.
  63. The findings might also help to explain why people tolerate milk to varying degrees. As one observer put it, the ability to drink milk is “not a qualitative trait that you have or you don’t”. Researchers in this field expect to discover yet more milk-drinking mutation variants. Gibbons, A., There’s more than one way to have your milk and drink it, too, Science 314(5806):1672, 15 December 2006.
  64. Check, E., How Africa learned to love the cow, Nature 444(7122):994–996, 21/28 December 2006.
  65. Wieland, C., The evolution train’s a-comin’ (Sorry, a-goin’—in the wrong direction)Creation 24(2):16–19, 2002, creation.com/train.
  66. Catchpoole, D., The people that forgot time (and much else, too)Creation 30(3):34–37, 2008, creation.com/forgot.
  67. It has also been suggested that people having the mutation might have been better able to survive drought, by being able to drink milk without the risk of diarrhea, which exacerbates dehydration. Ref. 10.
  68. https://celiac.org/
  69. Cammack, Richard; Atwood, Teresa; Campbell, Peter; Parish, Howard; Smith, Anthony; Vella, Frank; Stirling, John, eds. (2006). “Aa”Oxford dictionary of biochemistry and molecular biology. Cammack, Richard (Rev. ed.). Oxford: Oxford University Press. p. 47.

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