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Introduzione al COVID-19

Il COVID-19 (abbreviazione di coronavirus disease 19), o malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2 o più semplicemente malattia da coronavirus 2019, è una malattia infettiva respiratoria causata dal virus denominato SARS-CoV-2 appartenente alla famiglia dei coronavirus (Virus a RNA). I primi casi sono stati riscontrati in Cina nel dicembre 2019.[1]
La modalità di trasmissione predominante di questo patogeno risulta essere da uomo a uomo, generalmente attraverso particelle di acqua e muco infette (droplet) che le persone liberano starnutendo o tossendo e che poi vengono inspirate da un altro individuo.[2] Una persona infetta può presentare sintomi dopo un periodo di incubazione che può variare tra 2 e 14 giorni circa, durante i quali può comunque essere contagiosa.[3][4]
l COVID-19 colpisce principalmente il tratto respiratorio inferiore e provoca una serie di sintomi descritti come simil-influenzali,[2][5] tra cui febbre, tosse, respiro corto, dolore ai muscoli e stanchezza; nei casi più gravi può verificarsi una polmonite, una sindrome da distress respiratorio acuto, sepsi e shock settico, fino ad arrivare al decesso del paziente. Il trattamento della malattia consiste in genere nel gestire i sintomi clinici poiché, a febbraio 2020, non è stato trovato alcun rimedio efficace, tuttavia sono allo studio alcuni farmaci, tra cui alcuni antivirali, già impiegati con altri agenti patogeni.[2] La malattia venne identificata per la prima volta nei primi giorni del 2020 dalle autorità sanitarie della città di Wuhan, capitale della provincia di Hubei in Cina, tra i pazienti che avevano sviluppato una polmonite senza una causa chiara.[2]
Il 22 gennaio 2020, il Journal of Medical Virology ha pubblicato un rapporto con analisi genomica indicante che i serpenti nell’area di Wuhan sono “il più probabile serbatoio di animali selvatici” per il virus, ma sono necessarie ulteriori ricerche.[6]
Tuttavia, il modo in cui il virus potrebbe adattarsi sia agli ospiti a sangue freddo che a quelli a sangue caldo rimane un mistero, e lo rimarrà dal momento che il patogeno non si adatta ma presenta caratteristiche di adattabilità derivanti da processi entropici.[7] Tra i fautori delle “ibridazioni evoluzioniste” si sono diffuse alcune teorie tra le quali spicca quella secondo cui un “evento di ricombinazione omologa” può aver mescolato un virus “clade A” (virus simili a SARS Bat CoVZC45 e CoVZXC21) con la proteina legante del recettore di un Beta-CoV ancora sconosciuto.[8][9]
A favore di tale ipotesi essi citano le sequenze del betacoronavirus di Wuhan che mostrano somiglianze con i betacoronavirus trovati nei pipistrelli; tuttavia, il virus è geneticamente distinto da altri coronavirus come quello correlato alla sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e il coronavirus correlato alla sindrome respiratoria mediorientale da Coronavirus (MERS).[10]
Il SARS-CoV-2 è strettamente correlato al SARS-CoV-1 ( 75%-80%) ma comunque diverso, e la somiglianza è facilmente spiegabile con la famiglia di appartenenza e le già citate mutazioni. Gli istituti di ricerca e per il controllo delle malattie cinesi hanno isolato cinque genomi del nuovo coronavirus, tra cui BetaCoV/Wuhan/IVDC-HB-01/2019, BetaCoV/Wuhan/IVDC-HB-04/2020, BetaCoV/Wuhan/IVDC-HB-05/2019, BetaCoV/Wuhan/WIV04/2019 e BetaCoV/Wuhan/IPBCAMS-WH-01/2019.[10][11][12] La sua sequenza di RNA ha una lunghezza di circa 30 kbp (coppie di basi).[10]
Fatto sta che della reale provenienza del COVID-19 esistono solo, a livello mediatico, ipotesi tra le quali viene annoverata con maggiore sicurezza, per l’appunto, quella dell’origine animale (pipistrello). Ora, i virus che saltano tra le specie sono chiamati zoonotici (notare la parola “zoo” nel nome). Tra i virus zoonotici vi sono quelli dell’influenza [13], i quali appartengono alla famiglia dei coronavirus (vedi anche SARS e MERS) e l’HIV (il virus che causa l’AIDS). Tutti questi causano malattie nell’uomo. Alcuni di loro sono persistiti nella popolazione umana per molto tempo. Fortunatamente, molti “nuovi” virus si esauriscono per causa entropica. Anche i virus si degraderanno geneticamente nel tempo. Mentre si moltiplicano, accumulano mutazioni e, a volte, quelle mutazioni li indeboliscono fino al punto in cui non renderanno più possibile la sopravvivenza del patogeno. Questo però non è sempre il caso, e alcuni virus, come l’HIV o il virus del raffreddore umano (un coronavirus), possono continuare a propagarsi nonostante l’accumulo di mutazioni, probabilmente per un processo degenerativo più lento e meno compromettente per la loro funzionalità. La cosa è dipendente da molti fattori diversi e, cosa molto importante da tenere bene a mente, non esistono due virus uguali.
Abbiamo creato tutti i tipi di reti di sicurezza per prevenire la diffusione dell’infezione e il mondo sta iniziando a reagire più rapidamente alle minacce emergenti. Purtroppo, lo Stato italiano non ha saputo gestire la situazione con i tempi e la prontezza adeguati per arginare sul nascere una pandemia che sta vedendo un aumento dei contagiati di centinaia ogni giorno. Le quarantene, un accurata igiene delle mani e le vaccinazioni fanno tutte parte di quella strategia di contenimento, a seconda della gravità, del rischio e del fatto che abbiamo trovato o meno un modo per vaccinare contro un determinato patogeno. Prendiamo in considerazione la recente epidemia di Ebola in Africa. Sono stati spesi molti milioni di dollari per aiutare quelle persone in quel periodo terribile e ancora una volta è stato prevenuto un focolaio mondiale. L’epidemia di coronavirus, partito dalla Cina, sta attraversando l’intero pianeta. Per fortuna, il tasso di mortalità, che è iniziato a circa il 20%, è diminuito a circa il 3%, probabilmente a causa del miglioramento dei trattamenti medici della malattia. Ma anche un tasso dell’1 o 2% equivarrebbe a molti milioni di morti se sfuggisse completamente al controllo e diventasse comune come, diciamo, il raffreddore. Ma la comunità scientifica ha risposto molto rapidamente, sebbene non ovunque, ed è questo il problema. In breve tempo, sequenze geniche multiple per il virus sono state completate e pubblicate in banche dati pubbliche e microscopi elettronici hanno prodotto immagini di ciò con cui abbiamo a che fare. La velocità in questo è stata senza precedenti. Ciò nonostante, le sperimentazioni per un vaccino specifico sono ancora allo stadio su animali, e si presume che ci vorranno dai 12 ai 18 mesi prima che sia pronto un vaccino e altrettanto tempo prima che venga prodotto su larga scala e distribuito.

Se questo focolaio virale segue il corso di quelli precedenti, il COVID-19 potrebbe esaurirsi in un certo, sconosciuto, lasso di tempo. Questo è apparentemente quello che è successo al virus dell’influenza umana H1N1 che colpì il mondo tra il 1918 ed il 1920, uccidendo milioni di persone. Durò per 40 anni prima di scomparire. È stato reintrodotto da un campione di laboratorio conservato nel 1976 ed è durato altri 33 anni prima di scomparire di nuovo durante la pandemia di suina H1N1 del 2009-2010, che non era un virus particolarmente letale. Le versioni successive non avevano la natura letale di quelle precedenti e il fatto che l’H1N1 umano non potesse persistere nella popolazione umana in modo perdurevole è una buona prova del fatto che stava subendo entropia genetica. In effetti, il virus stava subendo oltre 14 mutazioni all’anno mentre era attivo e oltre il 10% del suo genoma era mutato prima che si estinguesse.[14] Ciò corrisponde a delle simulazioni computerizzate.[15]
Ma il COVID-19 non è l’influenza. Inoltre non siamo certi di dove o come questo virus abbia avuto origine, sebbene si insista sulla provenienza da pipistrelli. Ad ogni modo, dovrà essere trattato con molta attenzione e i nostri sistemi sanitari devono trattarlo come una minaccia seria e immediata. Non possiamo aspettare decenni perché l’entropia genetica lo cancelli dalla storia.
Oltre alla pandemia in corso alcuni speculatori e “complottari della domenica” hanno dato il via a chi pubblicava l’assurdità più grande riguardo a presunti metodi naturali per trattare questa emergenza che, vorrei ricordarlo, è mondiale e non è propriamente una semplice influenza o poco più. Dalla Vitamina C, alla A per finire con la D e tisane calde, i peggiori venditori di supercazzole delle italiche lande hanno letteralmente invaso i social convincendo della bontà delle loro affermazioni le povere e deboli menti degli ingenui navigatori. I “Curu” in questione hanno anche affermato che con l’integrazione di Vitamina A si può ridurre la mortalità addirittura al virus Ebola. Sono arrivati a citare alcuni studi a sostegno delle loro tesi sicuri di divenire “inattaccabili” da possibili (e probabili) detrattori. Come spesso capita a coloro che citano studi senza a) valutarne la qualità e b) l’attendibilità contestualizzando l’applicazione delle modalità riportate, i loro “bastioni” cedono senza troppi sforzi ad una lettura attenta della bibliografia citata ed esistente.
Ma diamo un occhiata a questi fantomatici studi.
Le speculazioni ai tempi del COVID-19

Il noto “Curu” FanTozzi riporta, tra la bibliografia dei suoi post a tema COVID-19, un (uno!) caso studio con baldanzosa certezza che tale lavoro possa avvalorare le sue tesi. Il “soggettone” tralascia innanzitutto un dato importante: la gerarchia nella piramide delle evidenze scientifiche!. I casi studio occupano uno dei gradini più bassi di tale piramide (vedi immagine seguente), appena sopra il parere degli esperti, vale a dire la base!. Detto ciò, nello studio “rivelatore” , pubblicato su “Viruses” [16], si descrive la somministrazione di 20.000 UI di vitamina A e 2000 UI di vitamina D in un gruppo di bambini dai 2 agli 8 anni che erano stati vaccinati per l’influenza. Il risultato di tale trattamento è stata la semplice ed ovvia dimostrazione che l’integrazione di vitamina A e D può migliorare le risposte immunitarie ai vaccini quando i bambini sono insufficienti con vitamina A e D al basale! Avete capito? “l’integrazione di vitamina A e D può migliorare le risposte immunitarie ai vaccini quando i bambini sono insufficienti con vitamina A e D al basale”! Bene, sembra però che il Fantozzi esponga il risultato in modo tale da vederne la conferma che la supplementazione di vitamina A e D causi universalmente, e indipendentemente dalla condizione nutrizionale del soggetto, una risposta immunitaria migliore. Arriva a affermare che senza un adeguato apporto vitaminico (che, voglio ricordare, corrisponde all’RDA) i vaccini non funzionano. Che scoperta sensazionale, specie nell’area occidentale del mondo che, nonostante sia caratterizzata da una cattiva alimentazione, raramente presenta soggetti carenti in Vitamina A mentre per la Vitamina D il discorso è leggermente diverso.
Il problema che lo studio appena esposto in sintesi, così “tradotto” dallo speculatore, trasmette la errata convinzione che le metodiche integrative da lui proposte possano dare risultati preventivi contro l’attuale, o altre, epidemie. La domanda a questo punto è: quale prova a favore? Nessuna! E’ la solita conclusione riduzionista: se 1+1 fa 2 vorrà dire che aggiungendo un altro 1 avrò un risultato migliore. Peccato però che la biochimica sia un calcolo a più variabili sia per le risposte di base universalmente condivise dagli esseri umani sia per le differenze di risposta individuale.
L’affermazione, o meglio “le affermazioni”, più eclatante è stata a proposito del trattamento con vitamina A (200.000 UI/die) come pratica per ridurre la mortalità nei pazienti affetti dal virus Ebola, pubblicata sul “Journal of Nutrition”. [17] Ora, se esaminiamo lo studio notiamo immediatamente che è stato effettuato in Africa Occidentale, luogo del focolaio del patogeno, caratterizzato da popolazioni con gravi carenze alimentari! Non c’è da stupirsi che il trattamento con vitamina A in soggetti malnutriti abbia garantito un margine di sopravvivenza più alto! Organismi ben nutriti avranno sistemi più efficienti! Non fatevi forviare dalla percentuale di mortalità tra i soggetti trattati (55,0%) e quelli non trattati (71,9%), che è del 16,9% in meno. essa è da ricollegarsi alla prima citata condizione aggiunta di variabili nutrizionali che hanno interessato i soggetti trattati. E, cosa più importante, la riduzione della mortalità non significa immunità al patogeno! Ma, ancora una volta, l’esposizione sensazionalistica del FanTozzi punta al convincimento delle sue teorie alternative, cioè: assumi vitamine come te lo dico io e sarai un super uomo…
La cosa tragicomica è che i post in questione sono caratterizzati per un 90% da attacchi degni del più ardito “anti-vax”. Tutto ciò tra affermazioni ridicole come “mi può pure starnutire in faccia un pipistrello di Whuan” (che inguaribile umorista lol) perché con la “Paleo Dieta” e la Vitamina D diventiamo tutti resistenti a qualsiasi patogeno. L’isteria dei “figli dello scientismo”, relativisti per educazione, complottari per impreparazione e amore cieco per i propri convincimenti che mai vengono messi in dubbio, è dannosa tanto quanto il COVID-19. Perché? Perché convince poveri ingenui a credere ad affermazioni giustificate dalla distorsione di una manciata di studi privi di contestualizzazione! Cosa che, di conseguenza, mette a rischio questi individui e la collettività!

Avrei potuto citare un altro paio di studi utilizzati come cavallo di battaglia dal FanTozzi ed altri “Curu” come il Panzerotti. Se volete approfondire basta che vi facciate un giro nei loro siti/pagine, la chiave di lettura non cambia comunque. Personalmente preferisco mostrarvi la Verità sul reale potenziale di specifiche vitamine a livello del sistema immunitario e la loro applicazione in soggetti affetti da patologie o virus e come mezzo preventivo.
Vitamine e prevenzione da contagio virale
Vitamina C

Una delle vitamine più “gettonate” del momento è senza dubbio la Vitamina C. Sono ormai anni che vengono diffusi studi sui noti benefici di una adeguata assunzione di tale vitamina legata, per esempio, al suo potenziale antiossidante e alla implicazione nella sintesi di collagene. Ultimamente, però, questa vitamina idrosolubile è stata ammantata di proprietà al limite del miracoloso nel contrastare infezioni virali se utilizzata a dose elevate (>1g/die). Tali affermazioni si basano, come esposto in precedenza, su alcuni studi di basso o medio valore di evidenza. Infatti, se andiamo a consultare attentamente la letteratura scientifica le valutazioni della Vitamina C in questo particolare frangente (sistema immunitario e prevenzione/trattamento da contagio virale) si ridimensionano fortemente sebbene la sua importanza a livello nutrizionale è indiscussa come quella di altri micronutrienti.
Secondo una meta-analisi (fascia alta delle evidenze scientifiche) sul tema della valutazione di dosi di 200mg o più di vitamina C, la sua assunzione non è riuscita a ridurre la frequenza dei raffreddori nella popolazione normale, ma è riuscita a ridurre la durata dei raffreddori (in media dall’8 al 14%).[18] [19] Quando si osservano studi che indagano lo stress fisico estremo (nei maratoneti e sciatori), il rischio di avere un raffreddore è stato dimezzato (come è stato notato in precedenti meta-analisi [20]) È stato evidenziato [21] che le osservazioni fatte da Linus Pauling sulle interazioni della vitamina C con il raffreddore comune potrebbero essere state influenzate da coorti atletiche, come uno degli studi più convincenti di cui ha scritto [22] il quale riguardava i bambini facenti parte di una scuola di sci (PDF tedesco [23]).
La maggior parte della letteratura usa dosaggi compresi tra 200mg e 2g e, sebbene ciò sembri essere inefficace per prevenire o ridurre l’insorgenza del raffreddore comune, sembra ridurne leggermente la durata. Ma ciò sembra manifestarsi nè più e nè meno nelle modalità di fattore concomitante dal momento che sono stati osservati benefici più marcati nelle popolazioni atletiche, dove il rischio può essere dimezzato.
Nota bene: “rischio dimezzato” e “fattore concomitante”! Non “immunità assoluta”, non “efficace contro ogni patogeno” e non “composto chiave”!
Un dato interessante riguardante la Vitamina C è rappresentato da uno studio nel quale è stato rilevato che il Mycobacterium tuberculosis resistente ai farmaci (batteri che causano la tubercolosi) è altamente sensibile alla degradazione da parte di tale vitamina , cosa piuttosto singolare in quanto altri batteri testati non ne sono stati interessati. [24-190] Ciò era dovuto a un elevato contenuto di ferro in questo batterio, che è ridotto (da Fe3 + a Fe2 +) e provoca effetti proossidanti dopo aver reagito con l’ossigeno.
Ovviamente si tratta di uno studio nel quale si parla di batteri. Da quanto riportato chiaramente, dovreste essere ormai consci della differenza tra un battere e un virus.
Comunque, non ci sono al momento prove su esseri umani che mostrino un effetto terapeutico nel trattamento della tubercolosi farmaco-resistente a base di Vitamina C, anche se le premesse di un esito positivo non manchino.
Tornando a parlare di COVID-19, attualmente non esiste una sola prova concreta che il supplemento possa aiutare un infetto a debellare tale patogeno.
Gli scienziati in Cina stanno attualmente effettuando test per scoprire gli effetti della Vitamina C sul nuovo Covid-19. Il dosaggio preso in esame è circa 60 volte la quantità giornaliera raccomandata dal SSN.
I ricercatori dell’Ospedale Zhongnan dell’Università di Wuhan hanno somministrato a 120 pazienti affetti dal virus 24g di vitamina C ogni giorno per sette giorni. I risultati devono ancora essere pubblicati e gli addetti ai lavori affermano che non ne conosceremo l’efficacia ancora per qualche tempo (diffidare delle conclusioni sensazionalistiche presenti in rete).[25]
E la Vitamina D?
Uno dei pochi studi degni di nota riguardanti il trattamento/prevenzione di infezioni virali riguarda un esperimento svolto su bambini in età scolastica al fine di misurare l’incidenza dell’influenza stagionale A se questi venivano trattati o meno con Vitamina D3 (1200 IU/die).[26] L’influenza A ha interessato 18 bambini su 167 (10,8%) nel gruppo trattato con Vitamina D3 rispetto ai 31 bambini su 167 (18,6%) del gruppo placebo [rischio relativo (RR), 0,58; IC al 95%: 0,34, 0,99; P = 0,04]. La riduzione dell’influenza A è stata più evidente nei bambini che non avevano assunto in precedenza altri integratori di vitamina D (RR: 0,36; IC al 95%: 0,17, 0,79; P = 0,006), quindi carenti di base, e che hanno iniziato la scuola materna dopo i 3 anni (RR: 0,36; IC al 95%: 0,17, 0,78; P = 0,005), con una condizione immunitaria non ben adattata in seguito a contatto con individui potenzialmente infetti da patogeni di diversa natura. Nei bambini con una precedente diagnosi di asma, si sono verificati attacchi di asma come esito secondario in 2 bambini trattati con vitamina D3 rispetto a 12 bambini trattati con placebo (RR: 0,17; IC al 95%: 0,04, 0,73; P = 0,006).
La conclusione a questo studio è stata un semplice suggerimento che l’integrazione di vitamina D3 durante il periodo invernale possa ridurre l’incidenza dell’influenza A, specialmente in specifici sottogruppi di scolari. Questo processo è stato registrato su https://center.umin.ac.jp come UMIN000001373. In definitiva, nulla di sensazionalistico, di nuovo…
Un sondaggio sui dati della letteratura genera mostra alcune controversie e dubbi sul possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione delle infezioni influenzali. Tuttavia, ci sono dati ottenuti in vitro o in vivo che indicano l’attività antivirale della vitamina D in caso di influenza. Oggi la conclusione finale è che il suo significato come agente anti-influenza rimane irrisolto, ma ciò non significa che queste considerazioni siano insensate. È molto importante rendersi conto che l’ampio spettro di attività della vitamina D non esclude tale ruolo.
Alcuni dei seguenti studi non riguardano strettamente l’infezione influenzale, ma anche le malattie respiratorie simil-influenzali delle infezioni del tratto respiratorio (RI) e la polmonite. Tuttavia, il periodo di tempo degli studi, ovvero ottobre-marzo o i mesi invernali, non esclude le infezioni influenzali, più comuni in autunno e in inverno. Secondo Cannell et al. [27], se la vitamina D è uno “stimolo stagionale”, la carenza di vitamina D dovrebbe predisporre i pazienti alle infezioni respiratorie.
Moan et al. [28] hanno confrontato la stagionalità dei decessi per influenza e polmonite in Norvegia con i livelli sierici di vitamina D. Il periodo di studi è stato tra il 1980 e il 2000. La conclusione finale di questi studi è stata che l’alto numero di decessi per influenza e polmonite invernali in Norvegia era correlato ai bassi livelli di vitamina D in questa stagione (anche se, per latitudine, la carenza di Vitamina D è assai diffusa per tutto l’anno). I dati supportano l’ipotesi che la vitamina D agisca da protettore contro l’influenza e la polmonite, sebbene non sia chiaro se richieda alcun aiuto o quale meccanismo domini nella battaglia contro le infezioni virali.
Laaksi et al. [29] hanno condotto uno studio in doppio cieco controllato con placebo (ottobre-marzo) che ha coinvolto 164 giovani finlandesi volontari (18-28 anni di età) sottoposti a addestramento militare. I soggetti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo di intervento (n = 80), che ha ricevuto 400UI di vitamina D al giorno, o al gruppo placebo (n = 84). Dopo sei mesi di studio, il gruppo integrato ha mostrato una concentrazione sierica media di 25 (OH) D (± DS) di 71,6 ± 22,9 nM / L (n = 58) e il gruppo placebo ha mostrato 51,3 ± 15,5 nM / L di 25 (OH) D (n = 50) (p <0,001). Il risultato principale considerato è stato il numero di giorni assenti dal servizio a causa di infezione respiratoria. La percentuale di uomini che sono rimasti sani durante il periodo di studio di sei mesi è stata maggiore nel gruppo integrato (51,3%) rispetto al gruppo placebo (35,5%) (p = 0,045). I risultati di cui sopra hanno fornito alcune prove dell’effetto preventivo della supplementazione di vitamina D contro l’infezione del tratto respiratorio e, secondo l’analisi della regressione di Cox, gli autori hanno notato che il rapporto di rischio per assenza dal servizio a causa dell’infezione del tratto respiratorio era inferiore nel gruppo integrato rispetto al gruppo placebo. Come dimostrato dagli autori, sono necessari studi randomizzati controllati con dosi più elevate e popolazioni più grandi per esplorare l’effetto preventivo della supplementazione di vitamina D sull’infezione acuta del tratto respiratorio. Urashima et al hanno presentato risultati promettenti e incoraggianti sull’integrazione con vitamina D per prevenire l’influenza. [30]
Il ruolo positivo della vitamina D nelle infezioni respiratorie e nella funzione polmonare è stato confermato da Berry et al. [31], che utilizzavano dati trasversali di 6789 partecipanti in una coorte di nascita britannica del 1958 a livello nazionale. Gli autori hanno misurato 25 (OH) D, funzionalità polmonare, capacità vitale forzata e infezioni respiratorie dall’età di 45 anni. Hanno mostrato un’associazione lineare tra lo stato della vitamina D e le infezioni stagionali e la funzione polmonare. Ogni aumento di 10nM/L della 25 (OH) D era associato a un rischio inferiore di infezione del 7%. Risultati simili sono stati ottenuti anche in altri studi. Aregbesola et al. [32] hanno studiato il rischio di polmonite ospedalizzata in una popolazione generale di anziani nella Finlandia orientale. Sulla base dello studio, gli autori hanno suggerito un effetto inverso della concentrazione sierica di 25 (OH) D sul rischio di polmonite in via di sviluppo. Jones et al. [33] hanno esaminato 46 campioni di sangue residuo di adulti e bambini, alcuni dei quali hanno avuto infezioni da virus dell’influenza del tratto respiratorio. Sono stati condotti test per la proteina legante il retinolo (RBP), la vitamina D e gli isotipi dell’anticorpo. I risultati hanno mostrato che 44 campioni presentavano insufficienze o carenze di RBP e / o vitamina D. Inoltre, la vitamina D era correlata alle IgM ematiche e alle IgG3, mentre l’RBP era correlata alle IgG4 e alle IgA. È noto che adeguati livelli delle vitamine A e D sono fondamentali per le risposte immunitarie ottimali nelle superfici della mucosa dei topi. Soprattutto, l’IgA è una prima linea di difesa contro i patogeni della mucosa. Quindi, secondo gli autori, i risultati suggeriscono che anche nell’uomo esiste una correlazione tra i livelli di vitamina A e D e il profilo anticorpale. Gli autori suggeriscono che le vitamine possono supportare lo sviluppo delle cellule dendritiche necessarie per la presentazione dell’antigene; Attivazione e homing delle cellule T; Attivazione, divisione e maturazione delle cellule B; e / o la stabilizzazione di cellule differenziate che producono anticorpi. Secondo Jones et al. [33], questi risultati riconoscono la necessità di ulteriori studi sulla correzione della supplementazione di vitamine, in particolare al momento della vaccinazione del virus respiratorio, per migliorare l’efficacia del vaccino e per la protezione contro le malattie delle vie respiratorie.
Effetti intriganti sono stati presentati da Mamani et al. [34] e Brance et al. [35] nei loro studi. Entrambi gli studi hanno mostrato una correlazione inversa tra il livello di 25 (OH) D e la gravità della CAP (polmonite acquisita in comunità), definita come punteggio CURB65 (confusione, uremia, frequenza respiratoria, bassa pressione sanguigna, ≥65 anni) . Inoltre, secondo Brance et al. [35], concentrazioni più alte di 25 (OH) D sono risultate correlate con un CCI inferiore (indice di comorbidità di Charlson). Nanri et al. [36], in un caso studio di controllo su una coorte di lavoratori in quattro società in Giappone durante la stagione invernale, hanno riscontrato che un rischio di influenza inferiore era associato alla sufficienza di vitamina D (≥30 ng/mL), ma solo tra i partecipanti non vaccinati . In un sottogruppo vaccinato in precedenza contro l’influenza, la concentrazione sierica di 25 (OH) D non era correlata in modo significativo con l’incidenza dell’influenza diagnosticata dal medico.
Esistono dati in vitro e in vivo, nonché dati risultanti da studi sull’uomo, che non dimostrano alcun significativo effetto in dall’integrazione di vitamina D nelle infezioni respiratorie virali.
Gui et al. [37] hanno mostrato l’impatto negativo del trattamento 2D 1α, 25 (OH) sulla risposta immunitaria innata generata dall’infezione da H9N2 nei topi, in particolare nella fase successiva della malattia. Sebbene abbia ridotto il gene influenzale M (codificando la proteina M correlata alla risposta infiammatoria e alla replicazione del virus), IL-6 e IFNβ nelle cellule A549 prima e dopo l’infezione da influenza H9N2, gli autori hanno scoperto che non influiva sulla replicazione del virus in vitro e in vivo. Inoltre, l’effetto del trattamento 1α,25(OH)2D dipendeva dallo stadio della malattia. Come mostrato in vivo, 1α,25(OH)2D a sotto-regolato l’infiammazione polmonare nei topi due giorni dopo l’infezione, ma ha aumentato la risposta infiammatoria da 4 a 6 giorni dopo l’infezione. Allo stesso tempo, l’espressione della citochina antivirale IFNβ era significativamente più alta a due giorni dopo l’infezione e inferiore ai giorni 4 e 8. Questi effetti erano coerenti con il periodo di massima perdita di peso corporeo e il danno polmonare nei topi trattati con calcitriolo. Il motivo dell’attività antinfiammatoria positiva di 1α,25(OH)2D notato nelle cellule A549 e l’effetto opposto riportato nei topi durante la fase successiva dell’infezione non è chiaro. Gli autori indicano due possibili spiegazioni. Il primo è che l’attività della vitamina D in vivo è complessa e ha un impatto su così tanti percorsi e meccanismi che può influenzare un componente di questo sistema, ma non l’altro. In secondo luogo, i virus dell’influenza aviaria come l’H9N2 inducono meccanismi diversi nei topi e nell’uomo. Ciò è in accordo con la conclusione fornita da Grant e Giovanucci [38], che hanno discusso, riguardo ai dati che dimostrano che la soppressione delle citochine proinfiammatorie da parte della vitamina D non ha ridotto il rischio di morte nei topi infettati da virus H5N1, che tale effetto non dovrebbe essere applicato alle infezioni da H1N1 nell’uomo a causa delle differenze nella risposta immunitaria. Anche l’attività antinfiammatoria di 1α,25(OH)2D su A549 infetto da H1N1 è stata dimostrata da Khare et al. [39]. Gli autori hanno osservato che il trattamento 1α,25(OH)2D prima o post-infezione riduceva i livelli di RNA di IL-6 e IL-8 e riduceva i livelli di TNFα, IFNβ e ISG15 indotti dall’infezione. L’1α,25(OH)2D non ha influenzato la clearance virale, analogamente ai risultati riportati da Gui et al. [37], ma ha ridotto l’autofagia e ripristinato l’apoptosi aumentata osservata nell’infezione da H1N1 al suo livello costitutivo.
Negli studi presentati da Jorde et al. [26], la vitamina D sembrava rendere l’infezione influenzale una malattia significativamente più prolungata rispetto ai pazienti che assumevano placebo. Nello studio sono stati inclusi 569 soggetti provenienti da 10 diversi studi clinici. Dei soggetti, 289 sono stati randomizzati a ricevere vitamina D (1111-6800 UI / giorno) e 280 hanno ricevuto placebo. Malattia simil-influenzale è stata segnalata in 38 soggetti nel gruppo vitamina D e 42 nel gruppo placebo. In questi gruppi, 25 e 26 soggetti, rispettivamente, hanno mostrato sintomi clinici dell’influenza secondo i criteri definiti. Nel gruppo vitamina D, la durata della malattia era significativamente più lunga rispetto al gruppo placebo (2-60 giorni contro 2-18 giorni; p = 0,007). Uno dei punti deboli di questo studio, come sottolineato dagli autori, era che lo studio era retrospettivo e si basava su sintomi auto-riportati; quindi, non c’era una diagnosi definita di influenza.
Alcuni risultati contrastanti sono stati presentati da Urashima et al. [40]. Come è stato riportato dagli autori, uno studio randomizzato controllato sugli effetti della supplementazione di vitamina D sulla malattia influenzale durante la pandemia di H1N1 del 2009 ha rivelato che l’influenza A o B si è verificata meno nel gruppo vitamina D che nel gruppo placebo solo durante la prima metà del lo studio. Durante il secondo mese, i risultati del gruppo vitamina D erano simili a quelli del gruppo placebo. Gli autori hanno osservato effetti simili, vale a dire l’azione preventiva della supplementazione di vitamina D solo nella parte iniziale degli studi, negli studi condotti tra gli studenti che hanno ricevuto 2000UI di vitamina D al giorno per due mesi. Come mostrato dall’analisi post-hoc, l’influenza A si è verificata significativamente meno nel gruppo vitaminico (2/148, 1,4%) rispetto al gruppo placebo (8/99, 8,1%), ma solo nel primo mese dello studio. Il vantaggio iniziale è stato perso durante il secondo mese. Questi risultati avrebbero potuto essere correlati con una più lunga integrazione con vitamina D e sono indirettamente coerenti con i risultati di Urashima et al. [30], che non hanno notato l’impatto della vitamina D sull’incidenza di influenza A nei bambini che avevano assunto più di un integratore di vitamina D.
La mancanza di correlazione tra infezioni respiratorie e supplementazione di vitamina D è stata dimostrata da Li-Ng et al. [41], che ha descritto uno studio randomizzato controllato per la prevenzione delle infezioni sintomatiche del tratto respiratorio superiore, condotto durante l’inverno. In totale, 162 adulti hanno ricevuto 2000UI di vitamina D al giorno per 12 settimane. Non vi era alcuna differenza nell’incidenza delle infezioni e nella durata o gravità dei sintomi di infezione delle vie respiratorie tra i gruppi integrato e placebo (48 vs 50 casi, rispettivamente, p = 0,57 e 5,4 ± 4,8 giorni vs. 5,3 ± 3,1 giorni, rispettivamente, p = 0,86). Vale la pena notare che dopo 12 settimane, la concentrazione sierica media di 25 (OH) D nel gruppo integrato era 88,5 ± 23,2 nM / L e nel gruppo placebo era 63,0 ± 25,8 nM / L. È un dato di fatto, la concentrazione sierica di 25 (OH) D nel gruppo integrato non era troppo efficiente; il valore 88,5 ± 23,2 nM / L è posto vicino al limite inferiore definito del livello 25 (OH) D riportato come livello guida (75–200 nM / L). [42] Negli studi condotti nel 2007, gli stessi autori hanno riscontrato una significativa riduzione del raffreddore e dell’influenza nelle donne che assumevano 800 o 2000 UI/giorno di vitamina D. Sorprendentemente, nell’ultimo anno dello studio, le donne integrate con 2000UI erano ancora vitamina D- carenti. [43]. Secondo Aloia e Li-Ng [43], lo studio dovrebbe dovuto usare abbastanza colecalciferolo per aumentare i livelli di 25 (OH) D fino a quelli raggiunti dalla sintesi naturale della pelle in estate, vale a dire ca. 50ng/mL. Una simile mancanza di effetti protettivi della vitamina D è stata riscontrata da Lappe et al. [44] in studi clinici randomizzati in doppio cieco, controllati con placebo, basati sulla popolazione. Tra le donne anziane in postmenopausa sane con un livello medio basale nel siero di 25 (OH) D pari 32,8ng/mL, l’integrazione con vitamina D e calcio rispetto al placebo non ha comportato un rischio significativamente più basso di tutti i tipi di cancro dopo quattro anni.
Nessuna associazione tra vitamina D e risposta sierologica post-vaccino è stata dimostrata nei pazienti con infezione da HIV vaccinati con influenza monovalente A (H1N1) da Crum-Cianflone et al. [45]. Durante uno studio prospettico di coorte di 124 partecipanti (64 infetti da HIV e 64 non infetti), la sieroconversione misurata come aumento> 4 volte del titolo anticorpale è stata raggiunta il giorno 28 post-vaccinazione nel 56% delle persone con infezione da HIV rispetto al 74% di quelli non infetti da HIV, ma la carenza di vitamina D era significativamente diversa tra i due gruppi.
Studi sull’immunizzazione di bambini vaccinati con vaccini antinfluenzali vivi attenuati o inattivati in dipendenza della concentrazione sierica di 25 (OH) D condotta da Lin et al. [46] non ha inoltre fornito una risposta alla domanda: “La vitamina D può agire da adiuvante nei vaccini antinfluenzali?”. I livelli di vitamina D nei titoli di anticorpi sierici e influenzali sono stati misurati prima e 21 giorni dopo la vaccinazione con vaccino antinfluenzale vivo attenuato o inattivato. Sorprendentemente, bassi livelli di vitamina D erano associati a un titolo anticorpale più elevato contro il virus vivo attenuato e questo effetto era specifico del ceppo (p <0,05). Risultati simili sono stati ottenuti da Principi et al. [47] quattro anni prima. Sulla base di uno studio prospettico, randomizzato, in singolo cieco, controllato con placebo su 116 bambini, gli autori hanno indicato che l’integrazione giornaliera con 1000UI di vitamina D per quattro mesi a partire dall’iniezione della prima dose del vaccino trivalente Fluarix contro l’influenza non ha modificato significativamente la risposta anticorpale. Allo stesso modo, Lee et al. [48] non ha osservato alcuna correlazione tra i livelli di 25 (OH) D e il titolo anticorpale post-vaccinazione in uno studio osservazionale retrospettivo condotto su 437 giovani membri sani dell’esercito. Solo 224 di essi (51,3%) hanno dimostrato un aumento del titolo post-vaccinazione antinfluenzale, che non era associato a livelli di 25 (OH) D.
Un riepilogo dei risultati ottenuti da alcuni autori in vitro o in vivo o in studi clinici controllati sull’impatto della vitamina D sulla risposta sierologica ai vaccini anti-influenzali è riportato nella tabella visibile cliccando qui.
Gli autori hanno un approccio critico agli studi clinici che non dimostrano un effetto benefico della vitamina D sul sistema immunitario o indicano la mancanza di alcun effetto di questa vitamina sull’immunizzazione post-vaccino. I principali motivi potenziali di questo risultato, che vengono spesso considerati sono: un tempo troppo breve tra i test di vaccinazione e livello di anticorpi, che potrebbe non essere sufficiente a rivelare l’immunostimolazione; o una dose troppo bassa di vitamina D, dando un livello di concentrazione di 25 (OH) D troppo basso per mediare nei processi di immunizzazione [49]. Ad esempio, Lee et al. [50], nei loro studi, hanno utilizzato i valori limite clinici per insufficienza di 20-30ng/mL e per carenza <20ng/mL, mentre, come dimostrato dagli autori, alcuni esperti hanno dimostrato che è richiesto un livello più alto (≥ 40ng/mL). Alcuni autori ammettono anche che nei loro studi le cellule T non sono state incluse. Pertanto, non è stato esplorato alcun potenziale impatto della vitamina D su questa parte della risposta immunitaria [50, 51]. Il prossimo potenziale motivo è che campioni troppo piccoli vengono utilizzati negli studi o i profili del sistema immunitario nei pazienti con malattie comorbide sono diversi rispetto ai soggetti sani, il che può potenzialmente determinare l’effetto della vitamina D sulla risposta antigene all’influenza, come osservato da Chadha et al. [52]. Inoltre, studi come quanto sopra dovrebbero essere condotti su un gruppo che è rappresentativo di altre popolazioni [50]. Come Lang e Samaras [49] hanno menzionato, ad esempio, il livello di anticorpi presente nel siero preimmunizzato può mascherare il potenziale effetto immunomodulatore della vitamina D sulla risposta immunitaria post-vaccinazione a causa della relazione inversa tra i livelli di anticorpi prima e l’aumento post anticorpale -vaccinazione. Pochi studi hanno incluso soggetti già sottoposti a supplementazione di vitamina D, oppure sono stati condotti in popolazioni selezionate [49,50,53,54].
Il lavoro descritto e fatto da Surman et al. [55-83] ha sollevato la questione molto importante dell’interazione di diversi fattori con conseguente risposta immunitaria. Gli autori hanno riportato nei topi immunizzati con un vaccino contro il virus dell’influenza attenuato che doppie carenze di vitamina A e D hanno ridotto la risposta anticorpale nel tratto respiratorio in misura maggiore rispetto alla carenza di una di queste vitamine. Sebbene l’integrazione con vitamina A abbia avuto un maggiore effetto correttivo rispetto alla vitamina D per la restituzione della sieroprotezione (risposte IgG e IgA), i risultati migliori sono stati con le due vitamine combinate e somministrate al momento della vaccinazione degli animali. Questi studi, sebbene basati su animali, forniscono alcune informazioni utili per la progettazione di studi clinici sull’uomo per il miglioramento dell’efficacia del vaccino antinfluenzale e mostrano che l’approccio all’importanza e il potenziale ruolo dell’integrazione con micronutrienti, come le vitamine, per raggiungere questo scopo l’obiettivo dovrebbe riguardare la loro interazione e sinergia d’azione [56,57].
Lee et al. [58] ha suggerito il ruolo reale della vitamina D nell’immunizzazione contro i virus dell’influenza. È noto che la vitamina D supporta processi antinfiammatori attraverso il suo impatto sulle cellule T. Quindi, secondo gli autori, una misura della maggiore immunità potrebbe non essere il meccanismo d’azione con cui funziona la vitamina D. È possibile che il suo livello più elevato riduca la gravità della risposta infiammatoria provocata dalle infezioni.
Quindi, i risultati presentati non sono troppo entusiasti per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia del vaccino antinfluenzale da parte della vitamina D. Tuttavia, alla luce delle sue fantastiche proprietà, è senza dubbio l’unica vitamina caratterizzata da un così ampio spettro di attività nel sistema immunitario.
L’indagine della letteratura riguardante il ruolo della vitamina D nel sistema immunitario e l’immunizzazione, in particolare contro i virus dell’influenza, non fornisce una risposta inequivocabile e in una sola parola di “sì” o “no” alle domande: “La supplementazione di vitamina D migliora la resistenza dell’ospite all’influenza? ” e “L’integrazione di vitamina D ha un ruolo nella terapia delle malattie da infezione virale?”. Gli autori, come presentati, nonostante la mancanza dei risultati attesi, non escludono il significato di questa vitamina per la battaglia anti-influenza condotta negli organismi umani. Alcuni di essi suggeriscono che gli effetti di 1α,25(OH)2D sull’espressione e la secrezione di chemochine variano tra i patogeni.[59] I risultati degli studi presentati non escludono inoltre la premessa di includere la vitamina D come adiuvante nella direzione del nuovo design del vaccino antinfluenzale. A seguito di Wiwanitkit [60], nonostante l’utilità non confermata della vitamina D come adiuvante per la vaccinazione antinfluenzale, somministrarla contemporaneamente comporta ancora alcuni vantaggi clinici. Secondo Grant e Giovanucci [61], gli integratori di vitamina D o gli alimenti arricchiti dovrebbero essere ulteriormente valutati come una componente forse utile di un programma per ridurre i tassi di mortalità influenzale, specialmente nelle persone anziane.
Gli studi mostrano chiaramente che la vitamina D è senza dubbio parte dei complessi fattori che influenzano la risposta immunitaria. Pertanto, la valutazione dello stato della vitamina D e il mantenimento di livelli sierici ottimali dovrebbero essere considerati in tutti gli adulti e i bambini che invecchiano e i micronutrienti dovrebbero essere considerati uno dei fattori essenziali che migliorano le nostre condizioni di salute in generale e supportano anche la nostra lotta contro le malattie.
E la Vitamina A?
Gli organi immunitari sono organi o tessuti che realizzano la funzione immunitaria e sono luoghi in cui la maggior parte delle cellule immunocompetenti proliferano, si differenziano, maturano, aggregano e rispondono all’immunità. La ricerca ha dimostrato che gli organi immunitari cruciali necessitano di un costante apporto dietetico per mantenere le concentrazioni di Vitamina A (VitA), e in precedenza Acido Retinoico (RA) ha dimostrato sia di promuovere la proliferazione sia di regolare l’apoptosi dei timociti [62,63,64]. Nel timo, la sintesi endogena di retinoidi e retinoidi simili ai glucocorticoidi potrebbero, in effetti, essere coinvolti nella regolazione dei processi di proliferazione e selezione timica, essendo presenti nel timo in quantità funzionalmente efficaci [65]. Nei topi, la VitA porta a un difetto delle risposte immunitarie sia mediate dalle cellule T sia dipendenti dall’anticorpo [66,67]. La VitA può anche inibire il normale processo di apoptosi delle cellule del midollo osseo, che porta ad un aumento del numero di cellule mieloidi nel midollo osseo, nella milza e nel sangue periferico, indicando che la VitA è coinvolta nella regolazione dell’omeostasi del midollo osseo [29]. La VitA probabilmente regola la popolazione del midollo osseo attraverso il recettore dell’acido retinoico (RAR) nel nucleo delle cellule del midollo osseo. Questo legame altera il livello di espressione dei geni dell’apoptosi, come Bcl-2, Fas e altri. I meccanismi specifici con cui questi geni dell’apoptosi regolano l’omeostasi del midollo osseo richiedono ulteriori approfondimenti.
L’acido retinoide svolge ruoli cruciali nella regolazione della differenziazione, della maturazione e della funzione delle cellule del sistema immunitario innato. Le cellule immunitarie innate sono costituite da macrofagi e neutrofili, che danno risposte immediate all’invasione dei patogeni attraverso la fagocitosi e l’attivazione di cellule T killer naturali che svolgono funzioni immunoregolatorie attraverso l’attività citotossica [68,69]. C’è un rapporto che mostra che la VitA è essenziale per il corretto sviluppo e differenziazione dei macrofagi CD169 + del colon [70]. I macrofagi includono principalmente macrofagi M1 che secernono citochine proinfiammatorie e macrofagi M2 che esprimono fattori antinfiammatori. L’all-trans-RA (ATRA) inibisce le reazioni infiammatorie inducendo la differenziazione dei monociti verso il lignaggio dei macrofagi inibendo al contempo il rilascio di fattori infiammatori dai macrofagi, inducendo così i macrofagi M1 nel midollo osseo a trasformarsi in macrofagi M2 [71,72]. L’ATRA agisce sui RAR nel nucleo dei neutrofili, inducendo la differenziazione e l’eterogeneità dei neutrofili attraverso l’attivazione della via di segnalazione mTOR. Questa via migliora le trappole extracellulari e la citotossicità dei neutrofili, consentendo un’uccisione efficiente di più cellule tumorali [73]. Sottoregolando il livello di espressione di IFN-γ e sovraregolando la secrezione di IL-5, l’RA svolge un ruolo regolatorio nella fase iniziale di differenziazione delle cellule T killer naturali [67].
Le cellule dendritiche (DC) sono potenti e versatili cellule presentanti l’antigene e sono sentinelle specializzate del nostro sistema immunitario in grado di orchestrare la risposta immunitaria innata e adattiva [74]. L’ATRA può regolare la differenziazione dei precursori DC [75, 76,77]. I pre-DC residenti nel midollo osseo hanno il potenziale di differenziarsi in DC pre-mucosali (pre-μDC), caratterizzati dall’espressione di recettori intestinali. L’ATRA agisce intrinsecamente a livello cellulare nello sviluppo di pre-μDCs intestinali-tropici per effettuare la differenziazione e favorire la specializzazione dei CD103 + DC intestinali [78]. I pre-DC possono migrare verso la milza, dove possono percepire gli ATRA distorcere la differenziazione verso CD11b + CD8-DC invece che CD11b-CD8α + DC [76]. Il consenso generale sull’effetto di ATRA sulla funzione DC è quello di promuovere un fenotipo antinfiammatorio caratteristico delle DC intestinali [79,80]. Tuttavia, in presenza di IL-15, l’ATRA ha dimostrato di agire come adiuvante nel promuovere la secrezione di citochine pro-infiammatorie IL-12 e IL-23 da parte dei DC [81], e ha proprietà coadiuvanti impreviste che inducono Th1 immunità agli antigeni nutriti. Ciò suggerisce che in condizioni infettive associate all’induzione di IL-15 e IL-6 nella mucosa intestinale, l’ATRA promuoverà anche l’immunità Th17 [82]. Queste osservazioni mettono in guardia contro l’uso di VitA e ATRA per il trattamento di autoimmunità e disturbi infiammatori intestinali associati a livelli elevati di IL-15.
Le cellule T hanno origine da cellule staminali pluripotenti nel midollo osseo. Queste cellule T migrano verso il timo dove si sviluppano in cellule T mature e si spostano verso i tessuti linfoidi periferici interessati. L’intero processo di sviluppo delle cellule T si basa sull’interazione dei recettori di homing delle cellule T con le molecole di adesione endoteliale [83]. L’homing delle cellule T è regolato da varie molecole di adesione che interagiscono con il recettore di homing [83,84,85]. La ricerca ha dimostrato che in condizioni infiammatorie, l’integrina α4β7 e il recettore delle chemochine delle cellule T, CCR9, sono cruciali per la migrazione delle cellule T nell’intestino [83,86]. Dopo aver ricevuto un segnale RA, RARα si lega all’elemento di risposta RA nel gene integrina α4 e regola l’espressione di α4β7. Allo stesso tempo, l’eterodimero di RARα con RXR si lega all’elemento di risposta RAR nella regione del promotore del gene CCR9, svolgendo così un ruolo regolatore aggiuntivo [87,88,89]. Nella lamina propria intestinale, l’AR è un regolatore essenziale per l’homing intestinale delle cellule T CD4 + e CD8 +. La deficienza da VitA ha causato una riduzione della memoria α4β7 (+) / attivato le cellule T negli organi linfoidi e una mancanza di cellule T dalla lamina propria intestinale [84,85]. Sulla base di ciò, la fornitura di ATRA durante la vaccinazione può aumentare la capacità dei vaccini virali basati su cellule T di promuovere le cellule T CD8 + dell’intestino / mucosa, al fine di fornire una maggiore protezione dalla sfida virale della mucosa, e ha anche portato alla formazione di più cellule T CD8 + simili alla memoria centrale specifiche del vaccino in siti sistemici [90,91]. Ulteriori ricerche mostrano che per la sopravvivenza delle cellule T CD8 + [92,93] è necessaria la segnalazione di AR per la sopravvivenza e l’espansione delle cellule T CD8 + e il requisito essenziale è RARα, ma non RARβ o RARγ. L’imaging del corpo intero usando un modello murino di artrite reumatoide ha dimostrato che la segnalazione di AR viene iniziata durante lo sviluppo dell’infiammazione. Inoltre, la segnalazione di RA è limitata al sito di infiammazione sia nel tempo che nello spazio. L’ablazione condizionale della segnalazione di AR nelle cellule T interferisce in modo significativo con la funzione, la migrazione e la polarità dell’effettore delle cellule T CD4 +, indicando il coinvolgimento dell’AR nella migrazione delle cellule T verso l’area dell’infiammazione [94].
Le cellule T regolatorie (Treg) sono una sottopopolazione di cellule T che mantengono la tolleranza immunitaria e regolano la risposta autoimmune [95,96,97,98]. Foxp3 è un fattore di trascrizione essenziale per la differenziazione e la funzione effettrice di Tregs [99,100]. In vivo, ATRA è prodotto principalmente da CD103 + DC nell’intestino [101]. Il fattore di crescita-β (TGF-β) trasforma le citochine convertendo le cellule T native in Treg che prevengono l’autoimmunità. Tuttavia, in presenza di interleuchina-6 (IL-6), è stato anche osservato che il TGF-β promuove la differenziazione dei linfociti T nativi in cellule Th17 che producono citochine IL-17 proinfiammatorie, che promuovono l’autoimmunità e l’infiammazione. L’ATRA, come regolatore chiave delle risposte immunitarie dipendenti dal TGF-β, è in grado di inibire l’induzione indotta da IL-6 delle cellule Th17 proinfiammatorie e promuovere la differenziazione delle cellule Treg anti-infiammatorie [102]. L’ATRA migliora l’espressione di Foxp3 in presenza di TGF-β, inducendo così la differenziazione delle cellule T native in Tregs e inibendo l’espressione di IL-17 [103]. L’ATRA agisce sulla RAR nucleare interagendo con TGF-β per attivare la via di segnalazione ERK1 / 2 e migliorare la modifica dell’istone della regione del promotore Foxp3 e conservare la regione del DNA non codificante. Pertanto, l’ATRA aiuta a mantenere l’espressione del gene Foxp3 e regola la differenziazione e la funzione di Treg [104]. Oltre a indurre la differenziazione delle Treg, è stato riportato che l’ATRA mantiene sia la stabilità delle Treg sia la loro funzione immunoregolatoria [105,106]. Esperimenti in vitro hanno dimostrato che negli ambienti pro-infiammatori, le Treg sono instabili e possono essere trasformate in altre cellule infiammatorie, come le cellule Th17, da citochine come IL-6 e IL-21, favorendo così lo sviluppo dell’infiammazione. Al contrario, l’aggiunta di ATRA inibisce la trasformazione di Tregs in Th17 o altre cellule Th, anche in presenza di IL-6, mantenendo così l’espressione di Foxp3 [105]. L’iniezione locale di Treg non è riuscita a prevenire lo sviluppo di un modello di artrite indotta da collagene, mentre l’iniezione di Treg pretrattati con ATRA ha inibito con successo lo sviluppo di artrite [105]. L’ATRA ha inoltre migliorato la stabilità e la funzionalità delle cellule Treg naturali umane in condizioni infiammatorie [107]. L’ATRA ha impedito la trasformazione di Treg in cellule Th17 e altre cellule infiammatorie inibendo l’espressione di IL-6R sulla superficie cellulare di Treg indotte in modo periferico. Pertanto, ATRA ha migliorato la funzione IL-2, un importante immunomodulatore, e ha promosso la trasformazione delle cellule T native in Treg naturali, inibendo la trasformazione indotta da IL-6 delle cellule T native in cellule Th17 [106]. Inoltre, l’ATRA ha anche la capacità di indurre e promuovere lo sviluppo e la funzione delle cellule Treg indotte nell’uomo. [108]
Sebbene la maggior parte delle prove dimostrino che, a livello farmacologico, la RA inibisce lo sviluppo di cellule infiammatorie e induce o espande le Treg, recenti lavori hanno suggerito che la RA può anche promuovere l’attivazione delle cellule T e le risposte delle cellule T helper a livelli minimi.
Come accennato in precedenza, RA è principalmente prodotto da DC nell’intestino. Alcuni rapporti mostrano che l’AR può essere prodotta anche in altri siti durante una risposta immunitaria in corso [109,110]. Si è già accennato al fatto che la segnalazione di RA è iniziata durante lo sviluppo dell’infiammazione. Allo stesso modo, ci sono prove che dimostrano che l’asse di segnalazione RA – RARα è essenziale per l’immunità adattativa delle cellule T CD4 + poiché le cellule T CD4 + carenti di RARα erano meno efficienti rispetto alle controparti wild-type nell’attivazione policlonale. Inoltre, nelle cellule T carenti di RARα, la fosforilazione di PLCγ ed ERK1 / 2 è stata ridotta e manifesta alterata mobilizzazione Ca2 + e attivazione mTOR / AKT alla stimolazione delle cellule T. Insieme, RARα può regolare le vie di segnalazione a valle dell’impegno del recettore delle cellule T. [111]
A dosi farmacologiche o elevate (10nM o superiori), è stato dimostrato che l’AR inibisce la reazione delle cellule Th17 e induce la generazione di Treg [112] e alte dosi di RA possono compromettere la differenziazione di cellule umane Th17 e Th1 in vitro.[113] Tuttavia, contrariamente alle segnalazioni di RA che inibiscono le risposte Th1 e Th17, alcuni gruppi hanno riferito che l’AR era benefica per la differenziazione delle cellule Th1 e Th17 a basse dosi. In dosi fisiologiche (1nM), l’AR promuove la differenziazione cellulare Th17 in vitro [114,115]. Inoltre, in condizioni di polarizzazione Th1 o Th17, le cellule T carenti di RARa coltivate in vitro non si sono differenziate in cellule Th1 o Th17, supportando il ruolo di RA nella differenziazione delle cellule Th1 e Th17 e i topi carenti in VitA presentano significative risposte Th1 e Th17 in vivo [116,117]. Tutti questi risultati hanno suggerito che l’AR può avere un effetto dose-differenziale sulla differenziazione delle cellule Th17 e Th1 [118]. Il ruolo della VitA / RA sulle cellule Tr1 e Tfh non è ancora chiaro, e merita ulteriori studi per consentire chiarimenti.
La produzione di anticorpi da parte delle cellule B è fondamentale per il mantenimento omeostatico immunologico umorale. Gli anticorpi rappresentano una classe specifica di immunoglobuline. Esperimenti su animali hanno dimostrato che l’aggiunta di cibi ricchi di carotenoidi alle diete dei conigli può aumentare i livelli sierici di IgG, IgM e IgA, migliorando così l’immunità umorale.[119] Ulteriori studi sui ratti hanno rivelato l’associazione tra una scarsità di VitA nella dieta e un aumento del numero di DC, oltre all’espressione significativamente sovraregolata di IL-12, recettore Toll-like 2 e fattore di differenziazione mieloide MyD88 nella mucosa intestinale. Quando i livelli di IgA secretoria diminuiscono, i ratti mostrano una ridotta funzione immunitaria, suggerendo che la VitA è coinvolta nella sintesi delle immunoglobuline e ha un’influenza importante sull’immunità umorale.[120] Un rapporto mostra che la RA è potentemente sinergizzata con i tessuti linfoidi associati all’intestino IL-6 o IL-5 derivati dalla DC per indurre la secrezione di IgA.[121] Uno studio knockout ha dimostrato che l’ablazione di RARα riduce l’espressione di IgA da parte delle cellule B espresse in vivo e in vitro. Ciò indica che RA agisce sulle cellule B direttamente attraverso RARα, che influenza la sintesi e la secrezione di IgA.[122] È anche probabile che l’AR colpisca prima le Treg e quindi moduli indirettamente le cellule B, poiché le Treg hanno un ruolo importante nella regolazione delle risposte delle cellule B.[123]
La stimolazione dell’antigene delle cellule immunitarie attraverso specifici anticorpi IgE provoca una risposta rapida e specifica all’ipersensibilità che è coinvolta nella maggior parte delle condizioni autoimmuni.[124] Le prove mostrano che RA ha un’attività repressiva di IgE in vivo. L’effetto inibitorio di ATRA su IgE riduce principalmente la sintesi e la secrezione di IgE attraverso RARα, e questo effetto inibitorio dipende da IL-10 [125,126,127,128]. Un altro rapporto mostra che il 9-cis-RA esogeno nel contesto di una sensibilizzazione allergica modula profondamente una risposta IgE umorale consolidata, con conseguente riduzione delle risposte IgE specifiche e aumento delle risposte IgA specifiche nei topi, indicando che i retinoidi attivanti RXR svolgono un ruolo importante in la regolazione fisiologica delle IgE dovuta alla sintesi endogena di 9-cis-RA. [124] Questi rendono la VitA una terapia molto promettente per il trattamento della malattia da ipersensibilità mediata da IgE.
Le cellule B regolatorie (Breg) sono una classe di sottoinsiemi di cellule B con funzioni immunomodulanti che sono coinvolte nel mantenimento dell’omeostasi immunitaria e svolgono un ruolo regolatorio essenziale in vari processi immunopatologici.[129,130] L’AR può indurre la differenziazione delle cellule B native in Bregs e stimolare la sintesi di Breg e la secrezione di IL-10 attraverso RARα.[131,132,133,134] Secernendo IL-10, i Breg hanno effetti migliorativi sulla colite, l’artrite e il lupus sperimentali.[131,132,133,134]. Il meccanismo con cui la VitA regola l’attività di Bregs e come migliora la sua funzione immunomodulante non è ancora stato compreso. Saranno necessarie ulteriori ricerche per chiarire questa domanda e per determinare se gli effetti della VitA sui Breg sono stabili.
Come risaputo, la tubercolosi, che è una malattia infettiva cronica causata dal batterio Mycobacterium tuberculosis, è un problema di salute globale. Negli ultimi anni, i risultati terapeutici dei farmaci tradizionalmente utilizzati per il trattamento della tubercolosi sono peggiorati a causa dell’aumento della popolazione batterica resistente ai farmaci. Pertanto, sono necessarie diverse strategie di trattamento.
Studi epidemiologici hanno dimostrato che la popolazione sana ha un livello sierico significativamente più alto di VitA rispetto ai pazienti affetti da tubercolosi.[135, 136, 137] Uno studio di coorte longitudinale sulla tubercolosi ha mostrato che la carenza di VitA è correlata dose-dipendente al verificarsi della tubercolosi.[138] Uno studio in vitro ha dimostrato che l’AR inibisce la crescita di M. tuberculosis e ne riduce il tasso di sopravvivenza quando viene assorbito dai macrofagi.[139] Per il meccanismo di attività batteriocidica della VitA, Wheelwright et al. hanno scoperto che la VitA può indurre l’espressione di NPC2. Nelle cellule knockout del gene NPC2, la stimolazione della VitA non ha mostrato attività batteriocidica sulle cellule infette. Tuttavia, il gene NPC2 è comunemente noto come regolatore del trasporto del colesterolo piuttosto che come fattore regolatorio immunologico. Questo risultato può essere spiegato come segue: il colesterolo è la fonte nutrizionale delle pareti cellulari batteriche della tubercolosi, mentre l’NPC2 facilita il trasporto del colesterolo dai lisosomi, privando quindi i batteri della tubercolosi delle loro esigenze nutrizionali. Senza la capacità di M. tuberculosis di generare pareti cellulari protettive, il lisozima può quindi uccidere efficacemente questo patogeno.[140] Ciò è stato dimostrato in un modello murino di tubercolosi in cui l’aggiunta di ATRA ha migliorato significativamente l’efficacia dei farmaci antitubercolosi tradizionali.[141] Tuttavia, saranno necessarie ulteriori ricerche per chiarire gli effetti positivi degli integratori di VitA sul trattamento della tubercolosi farmaco resistente.
I pazienti con AIDS sono soggetti noti, in generale, per essere carenti di molte vitamine. [142] Poiché varie vitamine hanno il potenziale per migliorare l’immunità dell’organismo e poiché l’AIDS deriva dall’infezione da virus dell’immunodeficienza umana (HIV), si ritiene che lo stress ossidativo abbia un effetto importante sul processo di infezione del virus HIV.[143,144] VitA, VitC e VitE sono antiossidanti naturali e, inibendo lo stress ossidativo dell’organismo, si ipotizza che queste vitamine possano migliorare la progressione dell’AIDS.
Uno studio precedente ha dimostrato che l’infezione da HIV riduce la regolazione di uno stress ossidativo da parte dell’organismo. Tuttavia, un antiossidante esterno, come la VitA, non ha alcun effetto compensativo sulla regolazione della risposta allo stress ossidativo.[145] Inoltre, sebbene le persone con infezione da HIV siano carenti di molte diverse vitamine, l’integrazione di vitamine non ha mostrato benefici clinicamente importanti nei soggetti con HIV.[146] Coerentemente, la VitA non influenza la trasmissione verticale dell’HIV da madre a figlio.[147] Pertanto, la supplementazione di VitA non sembra influenzare l’HIV in sé, ma ciò non significa che i pazienti o i portatori di HIV dovrebbero rifiutare la supplementazione di VitA o di altre vitamine. L’HIV riduce la funzione immunitaria del corpo, rendendo i pazienti sensibili alle malattie infettive, tra cui la tubercolosi, la malaria, l’herpes e altri.[148,149] Come accennato in precedenza, la VitA migliora l’immunità degli organismi ed è stato riportato che riduce l’incidenza della tubercolosi nei pazienti con HIV.[148] Inoltre, l’integrazione in gravidanza e postpartum con un multivitaminico ha migliorato significativamente lo stato ematologico tra le donne con infezione da HIV e i loro bambini e ha ridotto il rischio di anemia.[149] La terapia antiretrovirale è il regime di trattamento più efficace per l’HIV; tuttavia, la sola terapia antiretrovirale non è, ovviamente, sufficiente per migliorare la carenza di micronutrienti. Pertanto, è essenziale integrare VitA, e altre vitamine e micronutrienti durante il trattamento per l’HIV.[150]
L’assunzione giornaliera raccomandata di VitA per i bambini è di 1665UI.[151] La vitamina A, come retinolo, se supera le 20.000UI/ die anche per brevi periodi, può causare intossicazione e, occasionalmente, morte. L’intossicazione da VitA è una sindrome generalizzata, i cui segni e sintomi includono dermatite desquamativa ed edematosa, dolore e dolorabilità ossea, edema delle estremità e del viso, irritabilità, disfunzione epatocellulare e ipercalcemia.[152,153,154,155] Inoltre, l’infiammazione influisce sul metabolismo dei retinoidi. Il retinolo sierico può essere sequestrato nei tessuti, portando a una riduzione dei livelli sierici di retinolo, il che implica che la valutazione dello stato della VitA con l’uso del retinolo sierico durante l’infiammazione può essere problematica.[157]
Mentre l’approccio interdisciplinare continua a svilupparsi nella ricerca, le persone hanno prestato sempre maggiore attenzione al rapporto tra alimentazione e immunità. Inoltre, l’influenza dei micronutrienti sulla funzione immunitaria dell’organismo è stata ampiamente studiata. La VitA ha ruoli sia di promozione che regolatori nel sistema immunitario innato e nell’immunità adattativa; pertanto, può migliorare la funzione immunitaria dell’organismo e fornire una difesa avanzata contro più malattie infettive. Attualmente, l’effetto della VitA sulla funzione immunitaria è stato studiato a livello molecolare e sono in corso ulteriori ricerche sugli effetti terapeutici della VitA sulla prevenzione e la cura di varie malattie infettive. Man mano che crescono prove nel tempo, la VitA svolgerà probabilmente ruoli più critici nella moderna terapia. Ma il livello del dosaggio efficace, richiesto per una buona risposta immunitaria, non necessita di mega-dosi e può benissimo limitarsi a quello raccomandato in una dieta varia ed equilibrata. E, cosa molto importante, l’integrazione con VitA non garantirà alcuna immunità tantomeno nei confronti del nuovo patogeno COVID-19.
Ma le “pitecate” non finiscono qui…
- Assumere Glutammina.
La glutammina è nota per essere il principale substrato energetico utilizzato dalle cellule immunitarie chiamate leucociti e contribuisce alla proliferazione di queste cellule,
[158] la ragione per cui la glutammina è il substrato del carburante per i leucociti è la necessità di una fonte di energia più rapida del glucosio (simile alla mucosa intestinale e al midollo osseo).
[158] I leucociti non possono sintetizzare la glutammina da soli e quindi dipendono dalla glutammina fornita da altri tessuti che possiedono l’enzima glutammina sintetasi o dall’assunzione con la dieta. I tassi di crescita dei leucociti sono più alti con una concentrazione di circa 600 umol / L, una concentrazione ben all’interno della normale fisiologia umana.
[159] Per questo motivo la glutammina e il suo uso supplementare tendono ad essere praticamente limitati ai tempi in cui la sintesi o l’assunzione viene soppressa o reindirizzata, come una malattia critica o un prolungato esercizio cardiovascolare.
[160]
In uno studio su bambini affetti da disturbi gastrointestinali con eppisodi diarroici (preesistenti al trattamento) sono stati trattati giornalmente con 0,3g di Glutammina per ogni kg di peso corporeo.[161] I risultati dello studio hanno evidenziato che l’integrazione orale di Glutammina non ha avuto alcun effetto sulla conta dei Leucociti o dei Linfociti nel sangue dei soggetti trattati.
In conclusione, l’integrazione con Glutammina non ha avuto influenza significativa sull’immunità in sé.
- Assumere Zinco
L’IL-2 è noto per subire riduzioni in presenza di una carenza di Zinco [161] e di essere ripristinato a livelli ottimali con un assunzione adeguata del minerale in questione.[162] La produzione ex vivo di IL-2 (valutata mediante induzione dell’mRNA di IL-2 da cellule immunitarie stimolate) è aumentata con l’integrazione di Zinco a 45mg/die per un anno, nonostante le concentrazioni basali di IL-2 non siano particolarmente influenzate.[163]
È noto che la carenza di Zinco porta ad un ridotto numero di cellule T e successivamente a un’immunità umorale e mediata dalle cellule depressa.[164]
Una meta-analisi di 15 studi, tra cui sono state prese in esame 1360 persone, ha evidenziato che lo Zinco, sotto forma di losanghe (gluconato) o sciroppo (solfato), è stato associato con una durata e gravità inferiori del raffreddore comune quando assunto entro 24 ore dall’esordio di quest’ultimo che, dopo una settimana, aveva un rapporto di intensità e presenza, nonché di ricaduta, pari ad una ratio di 0,45 (meno della metà del rischio). [165]
L’integrazione di 45mg di Zinco nelle persone anziane (con concentrazioni di Zinco nel siero inferiori rispetto ai giovani di controllo) per la durata di un anno è associata a un tasso ridotto di infezioni del tratto respiratorio superiore (riduzione del 50% che non è stata significativa) e infezioni generali (occorrenza dell’88% ridotta al 29%).[163] L’integrazione prolungata di Zinco nell’arco di cinque mesi è associata a una ridotta incidenza di malattia (RR 0,64) sebbene con un’alta variabilità.[165]
Una dose elevata di Zinco, in soggetti deficitari, in risposta al raffreddore comune (non assunta preventivamente, ma solo all’inizio dell’infezione) sembra essere efficace nel ridurre la durata e la gravità della malattia.
Quindi, l’integrazione giornaliera di Zinco come preventivo, con diverse variabili dettate per lo più dalle concentrazioni ematiche di base del minerale, sembra ridurre il tasso di infezione da Rinovirius (virus del raffreddore). Soggetti con una buona assunzione di Zinco non mostrano significativi miglioramenti nella percentuale di infezione virale, ben che meno in riferimento al COVID-19.
- Bere ogni 15 minuti
Alcuni hanno affermato che dovremmo garantire che la nostra bocca e la nostra gola rimangano umide e non si secchino mai.
Alcuni individui suggeriscono di bere un sorso d’acqua ogni 15 minuti al fine di trasportare il virus dalla cavità orale allo stomaco dove (secondo la loro fantasiosa teoria) il virus verrà eliminato dall’acido gastrico. Ovviamente l’acqua non impedirà di eliminatre il COVID-19.
Il dott. William Schaffner, un esperto di malattie infettive alla Vanderbilt University, ha dichiarato: “Mettiamo sempre in guardia chiunque, che sia sano o malato, di mantenere l’assunzione di liquidi e mantenere umide le mucose.
Ti fa sentire sicuramente meglio; ma non vi è alcuna chiara indicazione che ciò possa proteggere direttamente da complicazioni legate al contatto con il patogeno.
- Radersi la barba
Un grafico dei Centers for Disease Control and Prevention che raccomandava agli uomini di radersi la barba per proteggersi dal COVID-19 è risultato essere una manipolazione fatta ad arte utilizzando frammenti di grafici emessi dall’organo di controllo sopra riportato.
Esso, oltretutto, risale al 2017, prima dello scoppio dell’epidemia di COVID-19, ed era destinato a professionisti che indossano respiratori per la protezione durante lo svolgimento delle loro mansioni.
Da allora il CDC ha affermato di non raccomandare l’uso di routine di respiratori o maschere per il viso al di fuori delle impostazioni del luogo di lavoro.
Viene detto che il personale di sesso maschile del SSN al Southampton General Hospital è stato recentemente invitato a radersi per aiutare a limitare la diffusione del virus.
Questo perché, secondo il responsabile della salute e della sicurezza, una barba lunga “rende impossibile ottenere una buona aderenza della maschera sul viso”.
Da qui la presunta correlazione tra infezione da COVID-19 e barba lunga.
Quindi, la rimozione della barba non impedisce la diffusione del virus.
- Gli asciugamani riscaldati uccidono il COVID-19
Sono circolate voci secondo cui l’uso di asciugamani riscaldati da aria calda per 30 secondi potrebbe causare la neutralizzazione del virus presente nelle mani.
Ma l’OMS afferma che questo non è vero e non rappresenta un mezzo per ridurre la contaminazione virale.
Infatti, le raccomandazioni sono ben chiare: “per proteggersi dal nuovo coronavirus, è necessario lavarsi spesso le mani con un gel a base alcolica o con acqua e sapone”.
“Una volta pulite le mani, asciugarle accuratamente utilizzando asciugamani di carta o un asciugatore ad aria calda.”
- Il collutorio
Il collutorio non può proteggerti dalle infezioni virali.
Non ci sono prove che l’uso del collutorio possa proteggere dall’infezione da COVID-19 .
Alcuni collutori possono eliminare alcuni microbi per alcuni minuti nella saliva. Tuttavia, ciò non significa che protegga dall’infezione del nuovo patogeno.
- Mangiare aglio previene l’infezione
Sebbene il regolare consumo di buone quantità d’aglio possa contribuire ad abbassare la pressione, non impedirà al consumatore di essere infettato dal COVID-19.
“L’aglio è un alimento sano che può avere alcune proprietà antimicrobiche”, afferma l’OMS.
“Tuttavia, non ci sono prove nell’attuale epidemia che il consumo di aglio abbia protetto le persone dal contagio del nuovo coronavirus.”
- I giovani non contraggono il COVID-19
Ormai lo sappiamo fin troppo bene, anche i giovani sono a rischio di contagio del COVID-19, nonostante i modelli statistici mostrino che gli anziani hanno un tasso di contagio più elevato.
“Le persone di tutte le età possono essere infettate dal nuovo coronavirus (2019-nCoV)”, afferma l’OMS.
“Le persone anziane e le persone con condizioni mediche preesistenti (come l’asma, il diabete, le malattie cardiache) sembrano essere più vulnerabili a diventare gravemente malati con il nuovo virus.
L’OMS consiglia alle persone di tutte le età di prendere provvedimenti per proteggersi dal virus, ad esempio seguendo una buona igiene delle mani e una buona igiene respiratoria.
- Lampade UV e COVID-19
L’OMS ha esortato le persone a non usare le lampade UV per sterilizzare le mani o altre aree della pelle nel tentativo di eliminare il COVID-19.
L’organizzazione ha dichiarato: “Le lampade UV non devono essere utilizzate per sterilizzare le mani o altre aree della pelle poiché le radiazioni UV possono causare irritazione alla pelle”.
- Spargersi l’alcool denaturato sul corpo e/o ingerirlo elimina il COVID-19
C’è chi consiglia di cospargersi il corpo di alcol o cloro per eliminare il virus quando questo è già presente nell’organismo.
In realtà, cospargersi, o peggio ingerire, tali sostanze può essere molto dannoso e non solo per i vestiti ma anche per le mucose (cioè occhi, bocca).
Bisogna essere consapevoli del fatto che sia l’alcol che il cloro possono essere utili per disinfettare le superfici, ma devono essere utilizzati secondo le raccomandazioni appropriate e non per usi impropri (come quello consigliato in seguito all’isteria da COVID-19).
- Lettere e pacchi dalla Cina non sono sicuri
Contrariamente alle ipotesi, è effettivamente sicuro ricevere pacchi dalla Cina.
“Le persone che ricevono pacchi dalla Cina non sono a rischio di contrarre il nuovo coronavirus”, afferma l’OMS.
“Da precedenti analisi, sappiamo che i coronavirus non sopravvivono a lungo su oggetti, come lettere o pacchi.”
- I vaccini contro la polmonite debellano il COVID-19
Secondo l’OMS, è falso affermare che i vaccini contro la polmonite possano proteggere dal COVID-19.
I vaccini per il COVID-19 sono ancora in fase di sperimentazione su animali e difficilmente saranno pronti in tempo per frenare l’attuale epidemia.
“I vaccini contro la polmonite, come il vaccino pneumococcico e il vaccino contro l’influenza Haemophilus di tipo B (Hib), non forniscono protezione contro il nuovo coronavirus”, afferma l’OMS.
“Il virus è così nuovo e diverso che ha bisogno del proprio vaccino. I ricercatori stanno tentando di sviluppare un vaccino contro il 2019-nCoV e l’OMS sta supportando i loro sforzi”.
“Sebbene questi vaccini non siano efficaci contro il 2019-nCoV, la vaccinazione contro le malattie respiratorie è altamente raccomandata per proteggere la salute.”
- Il risciacquo delle cavità nasali con una soluzione salina previene l’infezione
Non ci sono prove che il risciacquo regolare del naso con soluzione salina abbia protetto le persone dall’infezione del nuovo coronavirus, afferma l’OMS.
“Esistono prove limitate che il risciacquo regolare del naso con soluzione salina possa aiutare le persone a riprendersi più rapidamente dal comune raffreddore”, aggiunge l’organizzazione.
“Tuttavia, il risciacquo regolare del naso non ha dimostrato di prevenire le infezioni respiratorie.”
- L’olio di sesamo neutralizza il virus
L’olio di sesamo è un alimento base nella cucina asiatica, ma è tutto ciò per cui è buono usarlo.
“L’olio di sesamo non uccide il nuovo coronavirus”, avverte l’OMS.
“Esistono alcuni disinfettanti chimici che possono uccidere il 2019-nCoV sulle superfici.
“Questi includono disinfettanti a base di candeggina/cloro, solventi, etanolo al 75%, acido peracetico e cloroformio”.
“Tuttavia, hanno un impatto minimo o nullo sul virus se applicati sulla pelle o sotto il naso. Può persino essere pericoloso applicare questi prodotti chimici sulla pelle.”
- Gli antibiotici contro il COVID-19
Il COVID-19 è un virus e, pertanto, gli antibiotici non devono essere usati come mezzo di prevenzione o trattamento per il semplice fatto che NON FUNZIONANO SUI VIRUS MA SOLO SUI BATTERI!
Quali comportamenti utili adottare?
- Lavarsi spesso ed accuratamente le mani (per minimo 20 secondi). Si raccomanda di mettere a disposizione in tutti i locali pubblici, palestre, supermercati, farmacie e altri luoghi di aggregazione, soluzioni idroalcoliche per il lavaggio delle mani. Per i privati cittadini che devono spostarsi per motivi lavorativi e/o di approvvigionamento alimentare e/o di prodotti di necessità è consigliato l’uso di un disinfettante a base alcolica da potersi realizzare in casa secondo le indicazioni dell’OMS di seguito riportate.
Per 1lt:
– 833ml di Alcol Etilico al 96%;
– 42ml di Acqua Ossigenata al 3%;
-15ml di Glicerina (Glicerolo) al 98%;
-Acqua distillata oppure bollita è raffreddata quanto basta per arrivare ad 1lt;
-Mettere in una o più bottigliette.
- Evitare il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute.
Evitare abbracci, strette di mano, creare aggregazione o aggregarsi ad altre persone . - Mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro.
- Igiene respiratoria (starnutire e/o tossire in un fazzoletto evitando il contatto delle mani con le secrezioni respiratorie).
- Evitare l’uso promiscuo di bottiglie e bicchieri, in particolare durante l’attività sportiva.
- Non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani.
- Coprirsi bocca e naso se si starnutisce o tossisce senza usare la mano ma il braccio all’altezza del gomito.
- Non assumere farmaci antivirali autoprescritti.
- Pulire le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol.
- Usare la mascherina solo se si sospetta di essere malati o se si presta assistenza a persone malate. La mascherina non è un mezzo preventivo.
Ma quanto resta sulle superfici e in sospensione nell’aria il COVID-19?
- 4 ore sul rame;
- fino a 24 ore sul cartone;
- fino a 72 ore su plastica (polipropilene) e acciaio inox;
- in sospensione nell’aria fino a 3 ore. [166]
Ma il Tocilizumab?
E’ notizia recente che il trattamento di alcuni pazienti affetti da COVID-19 con Tocilizumab, un farmaco comunemente utilizzato per il trattamento dell’artrite reumatoide, abbia avuto esito positivo nel arrestare la cascata di eventi infiammatori derivanti dal patogeno. L’Aifa ha approvato il protocollo della sperimentazione scientifica del Tolicizumab, e Napoli e Modena sono i capofila. Sono partiti con priorità immediata su 250 pazienti in Italia.
Al momento della stesura di questo articolo sono in totale 11 i pazienti trattati a Napoli con il farmaco off label a seguito di una sperimentazione nata dalla collaborazione tra il direttore della Uoc di oncologia dell’azienda ospedaliera dei Colli, Vincenzo Montesarchio, e il direttore dell’unità di oncologia melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’istituto Pascale di Napoli, Paolo Ascierto.
E’ stata rilasciata la notizia che quattro dei pazienti in rianimazione stanno meglio, e per il primo paziente si attendono le valutazioni del rianimatore prima che si possa procedere ad estubarlo. Per tre dei quattro pazienti a cui è stato somministrato il Tocilizumab a partire da sabato c’è stata un’ottima risposta. Non erano in rianimazione ma erano ricoverati in condizioni severe. Risultati incoraggianti arrivano anche dall’ospedale di Cosenza, dove due pazienti hanno risposto molto bene al trattamento. In Puglia, in alcuni pazienti selezionati, contagiati dal COVID-19, è già iniziata la somministrazione del farmaco Tocilizumab.
Il farmaco utilizzato per la cura dell’artrite reumatoide e altre malattie croniche autoimmuni, il Tocilizumab, si sta dimostrando efficace nel trattamento della polmonite interstiziale causata dal Covid-19, anche su altri pazienti curati in Italia e non solo sui primi casi trattati a Napoli. Nella maggior parte dei casi si registra un rapido miglioramento tanto che l’azienda produttrice, la Roche, in pochissimo tempo ha già dispensato 600 trattamenti ai vari ospedali che lo chiedevano.
L’idea è nata perché l’immunoterapia viene usata nei tumori e alcuni effetti collaterali vengono trattati con il Tocilizumab. Il meccanismo che sta alla base del distress del Covid -19 è molto simile a quello dei trattamenti oncologici per questo motivo si è incominciato ad usarlo sui pazienti infetti dal nuovo patogeno. Il confronto con i medici cinesi è stato essenziale dal momento che essi avevano già usato il farmaco in 21 pazienti e in 20 si era registrato un miglioramento importante.
Il farmaco agisce sulla complicanza di questo virus cioè sull’infiammazione importante che il Covid-19 crea. Insomma diminuisce l’iperattività del sistema immunitario che è quella che causa l’insufficienza respiratoria. I medici in Cina hanno riportato che in due settimane dal trattamento i pazienti trattati sono stati dimessi e sono tornati a casa. Chiaramente segue per loro un periodo di convalescenza nel proprio domicilio. Ma è comunque un buon risultato. Ovviamente, l’isolamento contenitivo è la prima misura importante, l’unica che in questo momento può in qualche modo ridurre il numero dei contagiati. Ed è quello che hanno applicato severamente in Cina e che ha dato i suoi risultati positivi.
Prima che corriate per strada a stappare lo champagne fatto col bicarbonato che avete avanzato da capodanno, sappiate che stiamo comunque parlando di un farmaco sperimentale per questo trattamento e che non previene l’infezione da COVID-19 ne debella il patogeno già presente nell’organismo ospite. E’ stato testato solamente sugli ammalati molto gravi per arginare la risposta infiammatoria massiva causa delle complicazioni respiratorie. Si tratta quindi di un promettente farmaco per il trattamento dei sintomi che però, a mio avviso, si dovrà ancora attendere qualche tempo prima di poterlo considerare a tutti gli effetti, a 360°, un efficiente mezzo per il trattamento e cura (coadiuvato da antiretrovirali appositi) per i pazienti affetti da COVID-19.
Il costo del farmaco varia da un minimo di 211,77€ per il ROACTEMRA INF FL 4ML 20MG/ML a un massimo indicativo di 1.481,61€ per il ROACTEMRA SC 4SIR 162MG 0,9ML. Ovviamente non è disponibile alcuna formulazione generica dal momento che il brevetto in possesso della Roche non è scaduto.
Ma l’SR9009, abbassando l’infiammazione riducendo le IL-6 del 72%, non potrebbe avere un potenziale applicativo nel trattamento dei sintomi da contagio del COVID-19?

Una risposta affrettata sarebbe senza ombra di dubbio “si”, ma non sono solito dare giudizi prematuri so molecole sperimentali prive di sufficiente letteratura. Sebbene la molecola in questione, che giova ricordare è un agonista dei Rev-ErbA (agisce aumentando la repressione dei geni regolati da parte dei Rev-ErbA), si sia dimostrata promettente in un recente studio su topi [167] nel quale si osservavano i suoi effetti in seguito ad infarto (dimostrando l’assenza di tessuto cicatriziale, di danno cardiaco e insufficienza cardiaca), per via della sua azione modulatoria sul inflammosoma Nlrp3, un complesso proteico che scatena una risposta infiammatoria esagerata e patologica, la sua sperimentazione non sembra volta verso ulteriori applicazioni.
Dal momento che si tratta di una frontiera applicativa molto delicata, si sconsiglia caldamente l’auto sperimentazione!
Cosa concludere?
Beh, senz’altro, dopo questa approfondita disamina, se dotati di un minimo di capacità cognitiva, dovreste essere in grado di riconoscere l’inutilità di base nell’assunzione di dosi elevate di vitamine al fine di sviluppare una presunta resistenza immunitaria tale da rendervi immuni dal COVID-19 o altro patogeno altamente contagioso e potenzialmente letale. Sono consapevole del fatto che diverse persone, fin troppe, continueranno comunque a voler credere ciecamente a delle “belle” menzogne piuttosto che concretizzare il problema e adoperarsi a seguire linee guida per l’igiene pubblica confermate da valida, e ricca, letteratura scientifica. Nessuno mette in dubbio l’importanza di una corretta alimentazione, come più volte sottolineato, per garantire una capacità sistemica/immunitaria ottimale al fine di affrontare con una percentuale maggiore di esito positivo eventuali infezioni virali. Ma da qui ad affermare che mega dosi di Vitamina C, D ed A rendano il soggetto trattato praticamente immune dagli agenti patogeni beh, non solo rappresenta una distorsione dei dati scientifici reali a nostra disposizione ma comporta un vero e proprio atto criminale a danno della collettività!
Lasciate perdere gli improvvisati virologi e tutti coloro che, millantando rivelazioni tenute nascoste dai “gomblotti”, si definiscono “divulgatori scientifici” dimostrando soltanto una criminosa fantasia generata dal “markettismo” e da un modus relativista di interpretare dati scientifici sufficientemente chiari e, spesso, rilegati ai gradini più bassi della piramide delle evidenze scientifiche.
STATE A CASA E RIDUCETE LE USCITE, NON CHE LA VICINANZA CON GLI ESTRANEI, AL MINIMO INDISPENSABILE! SEBBENE SIANO GLI ANZIANI (MEDIA 80.3 ANNI) A RISCHIARE MAGGIORMENTE UN ESITO NEGATIVO DALL’INFEZIONE DA COVID-19, QUESTO NON AUTORIZZA NESSUNO A DIVENIRE UNA “BOMBA VIRALE”, UN “UNTORE”, CAPACE DI METTERE A RISCHIO LA FASCIA PIU’ DEBOLE DELLA POPOLAZIONE (COMPRESI PAZIENTI CON PATOLOGIE GIA’ PRESISTENTI E DI DIVERSE FASCE D’ETA’)!
Nota: ho evitato in tale sede di riportare le MIE conclusioni, maturate in seguito a giorni e notti di studio incessante, sulle possibilità di contagio e i modelli matematici che mostrano la media del numero di infetti una volta raggiunto il picco. La mia decisione è dettata 1) dal desiderio di non causare ulteriore panico e 2) dal fatto che sono molto cauto prima di esporre una teoria che potrebbe condizionare fortemente il comportamento della collettività.
Gabriel Bellizzi
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