Aspetti base della Dieta Chetogenica

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Cos’è la Dieta chetogenica?

La chetosi è uno stato metabolico in cui il fegato produce “chetoni”. I corpi chetonici sono tre: acetone, acetoacetato e 3-idrossibutirrato. Quando si riduce l’assunzione di carboidrati e si aumentano i grassi nella dieta, il corpo (dopo una prima fase di adattamento) si trasforma da “brucia-zuccheri” a “brucia-grassi”.

In pratica, invece di utilizzare gli zuccheri dei carboidrati come energia primaria, il corpo utilizza i grassi. E questo comporta tutta una serie di vantaggi, anche al fine di alleviare i sintomi di importanti patologie come il cancro, l’epilessia, la celiachia, il diabete tipo 2 e l’Alzheimer.

Lo stato di Chetosi

Quando consumiamo cibi ad alto contenuto di carboidrati (o anche importanti quantità di proteine), il nostro corpo li scompone rendendoli disponibili sotto forma di glucosio. Il glucosio (zucchero) è quindi utilizzato per “creare” energia necessaria al fine di regolare le varie funzioni vitali (semplificando, molto!).

Con un consumo calorico adeguato, la gran parte del cibo serve quindi a far funzionare il nostro corpo. Ma quando eccediamo, il glucosio che avanza viene convertito in glicogeno ed immagazzinato nel fegato e nei muscoli (glicogenosintesi). Se però le nostre riserve di glicogeno sono già “piene”, il nostro corpo converte l’eccesso di glucosio in grasso che si deposita.
Ora, quando le riserve di glicogeno sono finite, inizia lo stato di chetosi. In sostanza, il corpo inizia ad utilizzare le riserve di grasso (ce le abbiamo tutti, anche i più magri), creando delle molecole denominate “corpi chetonici”.

Per quello che sappiamo, lo stato di chetosi ha preservato la sopravvivenza dell’uomo. Se pensiamo agli uomini del passato più remoto, di certo non avevano l’opportunità di consumare cibo più volte al giorno (tutti i giorni) e neppure potevano recarsi al bar sotto casa per mangiarsi un panino. Anzi, dovevano cacciare (con non poco sforzo) per procurarsi il cibo, e non sempre ci riuscivano, magari per giorni e giorni. Sopravvivevano grazie ai corpi chetonici, e si sa, consumavano una dieta molto ricca di grassi. Certo non per scelta, ma tant’è.

Quanto tempo ci vuole per far sì che il corpo si trasformi da brucia-zuccheri a brucia-grassi?

Non c’è un periodo preciso per tutti. Generalmente si parla di un periodo che varia da 1 settimane fino a 4 settimane, una volta che il consumo di carboidrati viene ridotto (al di sotto dei 60 grammi al giorno).

I corpi chetonici sono pericolosi?

Molte persone (incluso i medici, ne conosco alcuni), non conoscono bene la materia e confondono lo stato di chetosi con la chetoacidosi (diabetica). Si tratta di due situazioni molto differenti. E mentre per la prima non vi è alcun pericolo, per la chetoacidosi sì, poiché si attiva un processo in cui la produzione di corpi chetonici è abnorme e fuori controllo, a causa dell’impossibilità (dei pazienti diabetici) di utilizzare il glucosio (carenza di insulina).

Sappiate però che la chetoacidosi può intervenire solo in persone con la quasi totale assenza di insulina (come per i diabetici di tipo 1).

Dieta Chetogenica in atleti di alto livello negli sport di lunga durata

Per quanto riguarda la possibilità di allenarsi in sport di lunga durata seguendo una dieta chetogenica, i pareri sono assolutamente discordanti. In uno studio però, 5 ciclisti ben allenati si sono sottoposti alle consuete sessioni di training durante un periodo di 4 settimane seguendo una dieta chetogenica. Nonostante le perplessità iniziali, gli allenamenti si sono svolti regolarmente ed invece di ingerire Powerade durante la performance, gli atleti si sono “reidratati” con burro di cocco (full-fat).

Effetti “transitori” durante le prime settimane di adattamento

Dopo aver diminuito l’assunzione di carboidrati, si possono registrare alcuni effetti transitori durante la fase di adattamento (prime settimane), come: affaticamento, irritabilità, mal di testa, senso di debolezza, desiderio di consumare zuccheri e costipazione. Tuttavia non è una regola fissa che può valere per tutti. Ma soprattutto, per chi già segue una Paleo dieta, questi effetti sono ridotti al minimo.

Miti da sfatare sulla Dieta chetogenica

1.La dieta chetogenica richiede un consumo elevato di proteine.
Contrariamente a quanto molti pensano, una dieta chetogenica (a basso contenuto di carboidrati) non è una dieta ad alto contenuto di proteine.

2.Ma una dieta ad alto contenuto di grassi non è pericolosa?
La risposta breve è NO. Anzi, una Paleo dieta ad alto contenuto di grassi (“Paleo”) è probabilmente tra le migliori diete possibili, quando associate ad un consumo limitato di carboidrati. Una dieta ricca in grassi e con pochi carboidrati contribuisce all’aumento del colesterolo buono ed abbassa i trigliceridi.

3.Una dieta chetogenica ricca di grassi intaserà le mie arterie provocando problemi al cuore.
Questa è una delle più grandi bugie, basata sul fatto che grassi e colesterolo causino malattie cardiache. Non esiste alcuno studio scientifico pubblicato che dimostri una correlazione causante tra colesterolo, grassi saturi e malattie del cuore.

4.Antiossidanti e fitonutrienti dei vegetali sono importanti per la nostra salute. La dieta chetogenica ne è carente.
Innanzi tutto, vale la pena ricordare che 60 grammi di carboidrati da verdure (se ben scelte) possono rappresentare una buona quantità da consumare al giorno. Poi, nonostante quello che si pensi comunemente, i cibi di provenienza animale sono più ricchi in vitamine e minerali dei vegetali, ad eccezione solo di vitamina K, vitamina C e vitamina E. Ecco perché spesso si raccomanda (durante un regime chetogenico) l’assunzione di verdure a foglia verde (vitamina K e C) e noci (vitamina E). E’ infine importante sapere che con la diminuzione dei carboidrati assunti, diminuisce anche il fabbisogno di vitamina C e considerato che gli animali sono in grado di produrre da soli la vitamina C, è essa stessa presente nelle carni che consumiamo (se non troppo cotte).

A sostegno di quanto appena riportato, illuminante è l’esperimento degli antropologi Vilhjalmur Stefansson ed Anderson che per 9 anni hanno vissuto con la popolazione eschimese degli Inuit consumando carne e pesce per il 90% della dieta. Rientrati a New York Stefansson (insieme ad altre persone) si sottopose ad uno studio all’interno dell’ospedale Bellevue consumando per un anno quasi esclusivamente carne, pesce e grassi (grassi 75-86%, proteine 15-25%, carboidrati 1-2% su un consumo quotidiano di calorie tra le 2000 e 3100) . Alla fine dell’esperimento, tutti valori erano nella norma e non furono registrate carenze vitaminiche.

Una dieta chetogenica è per sempre. O forse no..?

La dieta chetogenica è uno strumento potente. E come si sa, la potenza è niente senza controllo. Può essere d’aiuto in molte circostanze tra le quali la perdita di grasso in eccesso, l’intolleranza al fruttosio o la cura dell’epilessia.
Sulla durata e la pianificazione, vi rimando al vostro medico o preparatore.


Fonte: Codice Paleo

Acetil-L-carnitina e sua integrazione

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Molecola Acetil-L-Carnitina

 

Le informazioni presentate in questo post hanno solo scopo educativo. Si basano su studi scientifici, esperienze cliniche o usi tradizionali. I risultati riportati non avvengono necessariamente in tutti gli individui. Consultare sempre il proprio medico, dietologo o farmacista prima di intraprendere l’uso di qualsiasi integratore dietetico. Le informazioni qui riportate non vogliono avere alcun valore di prescrizione medica.

Introduzione

La L-carnitina è stata scoperta nei tessuti muscolari nel 1905. È presente come carnitina libera non esterificata e come carnitina esterificata (acil-carnitina). L’acetil-L-carnitina rappresenta la forma più semplice tra le carnitine esterificate, ovvero quella nella quale il gruppo acilico legato è composto da solo due atomi di carbonio.
In pratica, l’acetil-L-carnitina è un estere dell’aminoacido trimetilato L-carnitina, composto che gioca un ruolo di fondamentale importanza nel processo di produzione di energia a partire dai lipidi. La L-carnitina, infatti, permette il trasporto degli acidi grassi a lunga catena dal citosol cellulare ai mitocondri, ove il processo continua attraverso la beta ossidazione, il ciclo di Krebs e la fosforilazione ossidativa fino alla produzione di energia in forma di ATP. L’acetil-L-carnitina riveste un ruolo cruciale in questo complicato processo, vale a dire quello di trasportatore intermedio del gruppo acetilico tra la molecola della L-carnitina e quella del CoA.
L’acetil-L-carnitina è in grado di: facilitare l’uptake di CoA nel mitocondrio durante il processo di beta ossidazione degli acidi grassi, incrementare la produzione di acetilcolina e stimolare la sintesi dei fosfolipidi di membrana. Essendo dal punto di vista strutturale molto simile alla acetil-colina, l’acetil-L-carnitina può anche esercitare un azione colino-mimetica.
Le possibili applicazioni dell’acetil-L-carnitina sono molteplici e rivestono molti ambiti, dagli integratori energetici destinati agli sportivi, a quelli contro la depressione e per la funzionalità cerebrale. La ricerca medica ha inoltre individuato alcuni indirizzi terapeutici di tipo prettamente clinico, quali ad esempio: il morbo di Alzheimer, le neuropatie diabetiche, l’ischemia e la riperfusione cerebrale nonché il miglioramento delle facoltà cognitive degenerate in seguito ad alcolismo. In questa sede ci atterremo solamente al primo ambito, ovvero quello che maggiormente si rivolge alla prevenzione od alla cura di una sintomatologia leggera e quindi non di carattere prettamente patologico.

Metabolismo

La carnitina può essere sintetizzato nel cervello, nel fegato o nel rene ad opera dell’enzima ALC-transferasi a partire da lisina, metionina ed in presenza di vitamina C ed altre sostanze che fungono da substrato o cofattori. Il tessuto del muscolo cardiaco e di quello scheletrico rappresentano le principali sedi di stoccaggio di questa sostanza.
Il metabolismo della L-carnitina è riassunto nella figura. Come si può notare, la produzione di acetil-L-carnitina avviene a partire dalla L-carnitina e dall’acetil-CoA derivato dal processo di beta ossidazione degli acidi grassi (entranti sotto forma di acil-CoA) grazie all’intervento dell’enzima carnitina-acetiltransferasi presente nella matrice mitocondriale.
La disponibilità di L-carnitina e dei suoi esteri previene l’accumulo di quantitativi tossici di acidi grassi e acil-CoA (rispettivamente nel citoplasma e nel mitocondrio) e permette l’avviamento degli acetil-CoA alla sede mitocondriale per la produzione di energia.

Per le prestazioni sportive

I livelli di carnitina totale, di carnitina libera, di carnitina esterificata presenti nel nostro organismo possono essere misurati tramite il prelevamento di campioni di urina, plasma e tessuto (biopsie muscolari) umano. Grazie alla misurazione dei metaboliti della carnitina che accompagnano l’esercizio fisico, è stato possibile stabilire che l’allenamento intenso determina un’ingente domanda metabolica di carnitina. In tal caso l’assunzione esogena di carnitina può facilitare significativamente l’entrata degli acidi grassi nei mitocondri e la conseguente produzione di ATP.
Per garantire una continua disponibilità di energia durante l’esecuzione di un’attività fisica particolarmente intensa, possono essere assunte indistintamente sia la forma libera della L-carnitina che quella esterificata dell’acetil-L-carnitina (singolarmente od in miscela). I meccanismi che, in entrambi i casi, entrano in gioco sono riassumibili come segue:

• Incremento dell’efficienza metabolica di utilizzazione delle molecole ad alta energia (lipidi).
• Incremento della possibilità di bruciare grassi durante l’esecuzione dell’attività fisica.
• Incremento dell’efficienza con la quale sono bruciati gli zuccheri.
• Diminuzione del rapporto lattato/piruvato con relativo incremento della disponibilità energetica a livello cellulare.
• Livelli ottimali di creatina contribuiscono a contrastare il naturale innalzamento di acetil-CoA che si verifica durante l’esercizio fisico.
• Incremento diretto dell’attività degli enzimi che partecipano alla respirazione cellulare (più veloce produzione di energia).
• Riduzione del dolore muscolare che può seguire un intenso esercizio fisico.
• Riduzione dell’incremento dei battiti cardiaci durante l’istante di massima intensità dello sforzo.
• Incremento della resistenza degli atleti durante sforzi prolungati.
• Diminuzione della formazione di radicali liberi durante l’esercizio fisico.

Per le prestazioni intellettuali

Per la presenza del gruppo acetilico, l’acetil-L-carnitina è in grado di oltrepassare la barriera ematoencefalica ed è quindi più adatta della L-creatina libera ad ottimizzare la funzione cellulare nel distretto cerebrale.
In particolare, l’acetil-L-carnitina può prevenire il naturale deterioramento cellulare che può verificarsi in seguito al perduramento di situazioni di stress od all’invecchiamento. Coll’avanzare dell’età, infatti, la quantità di acetil-L-carnitina presente nel nostro cervello diminuisce. Per questa ragione, l’integrazione con tale sostanza è particolarmente indicata per le persone anziane. L’acetil-L-carnitina risulta di grande utilità anche nel caso in cui le cellule cerebrali siano state private di ossigeno per un breve lasso di tempo. È stato infatti verificato che, grazie alla somministrazione di acetil-L-carnitina, il recupero dei pazienti colpiti da ictus può essere più veloce.
Il meccanismo con il quale l’acetil-L-carnitina può prevenire il deterioramento delle cellule cerebrali ed ottimizzare la loro funzionalità coinvolge diverse modalità. L’acetil-L-carnitina, oltre ad aiutare le cellule cerebrali ad avere a propria disposizione energia prontamente disponibile, agisce anche da potente antiossidante e contribuisce ad incrementare il livello di un importante messaggero molecolare, l’acetil-colina. La disponibilità di energia è particolarmente importante per le cellule cerebrali che, come è noto, non sono sostituibili.
L’acetil-L-carnitina è inoltre in grado di diminuire la perdita di recettori cellulari che normalmente avviene coll’avanzamento dell’età. Tali recettori sono quelli che permettono la comunicazione tra diversi neuroni: ottimizzare la loro funzionalità significa dunque ottimizzare la funzionalità cerebrale. L’acetil-L-carnitina agisce anche a livello dei neurotrasmettitori, vale a dire delle molecole che partecipano dal punto di vista chimico alla trasmissione dell’impulso.
Proprio per la sua capacità di incrementare la vitalità e l’energia a livello intellettuale, l’assunzione di acetil-L-carnitina risulta indicata anche nel trattamento della depressione, soprattutto di quella che compare in età avanzata.
In alcune sperimentazioni, inoltre, l’acetil-L-carnitina si è dimostrata in grado di:

• diminuire l’accumulo di lipofuscina, un indice di invecchiamento nel cervello;
• aumentare il livello del fattore di crescita NGF (nerve growth factor) che costituisce un composto importante nel mantenimento della funzionalità dei neuroni. Dato che col progredire dell’età i neuroni rispondono meno alla benefica azione dell’NGF, l’azione dell’acetil-L-carnitina si manifesta coll’incrementare anche la sensibilità dei neuroni nei confronti di tale composto;
• mantenere la guaina mielinica di rivestimanto dei nervi (importante per il mantenimento della salute e funzionalità dei nervi stessi);
• preservare l’informazione genetica custodita negli acidi nucleici RNA e DNA;
• aiutare le cellule cerebrali ad utilizzare fonti energetiche alternative, quali ad esempio i lipidi od i corpi chetonici. L’assunzione di acetil-L-carnitina aiuta le cellule del nostro cervello ad adattarsi a livelli minori di glucosio nel sangue quali quelli che possono verificarsi tra un pasto (ipoglicemia). In tale modo è garantito al cervello un costante ed adeguato apporto di energia;

In sintesi, possiamo affermare che l’acetil-L-carnitina:

• mantiene i neuroni vitali ed in salute;
• aiuta i neuroni ad inviare ed a ricevere i segnali;
• protegge i neuroni ed i loro recettori dal danneggiamento inflitto dallo stress.

Dal momento che il cervello sovrintende a tutti i processi che regolano lo stress e l’invecchiamento, agendo positivamente in ambito cerebrale, l’acetil-L-carnitina contribuisce al mantenimento dello stato di salute globale del nostro organismo.

Dosi e tossicità

Le dosi normalmente consigliate per l’acetil-L-carnitina variano dai 250 ai 2.000-3.000 mg/die a seconda del tipo e dell’indirizzo della formulazione6. A titolo indicativo, è possibile riportare i seguenti dosaggi:

• per il mantenimento della funzionalità intellettuale: 250-1.000 mg/die
• contro la depressione e per il sistema immunitario: 500-2.000 mg/die
• per la performance sportive: da sola od assieme alla L-carnitina in dosi da 500 a 2.000 mg/die.

In corrispondenza dei dosaggi più elevati e/o prolungati, in alcuni soggetti possono presentarsi sogni più vivaci. Se si stanno assumendo farmaci a base di acido valproico (es. Depakote, Depakene), ma anche fenitoina (Dilantin) potrebbe essere necessario incrementare l’utilizzo di carnitina (in questi casi è sempre opportuno consultare prima il medico).

ACETIL N-CARNITINA
Tabella riassuntiva

Proprietà, azioni, impieghi:

Miglioramento delle performance sportive ed intellettuali, aiuto per la memoria, per il sistema immunitario e per il mantenimento delle facoltà intellettive, contro la depressione, contro la sindrome da affaticamento cronico, etc.

Dose consigliata:

– Per il mantenimento della funzionalità intellettiva: 250-1.000 mg/die
– Contro la depressione e per il sistema immunitario: 500-2.000 mg/die
– Per le performance sportive: da sola od assieme alla L-carnitina in dosi da 500 a 2.000 mg/die.

Quando iniziare ad assumerla:

Per il miglioramento delle facoltà intellettive, è’ consigliabile iniziare ad assumerla con l’inizio dell’età adulta (18-20 anni) in concomitanza di periodi di intenso stress fisico ed intellettuale e con maggiore regolarità dopo i 40 anni.

Possibili sinergie con:

Magnesio, acido folico, Vit B12, Zinco, Vit. E, Vit. B6, CoQ10, Ginkgo biloba, Rhodiola rosea, Rhododendro caucasico, Cardo mariano, Kawa kawa, Centella asiatica, Semi di pompelmo, Mirtillo, Valeriana.

Precauzioni per l’utilizzo:

Non è consigliabile l’utilizzo da parte dei soggetti colpiti da epilessia o da sindromi maniaco-depressive bipolari.

Possibili Effetti Collaterali:

In corrispondenza dei dosaggi più elevati e/o prolungati, in alcuni soggetti si possono presentare sogni più vivaci.

Possibili interazioni con:

Se si stanno assumendo farmaci a base di acido valproico (es. Depakote, Depakene), ma anche fenitoina (Dilantin) potrebbe essere necessario incrementare l’utilizzo di carnitina (consultare il medico)

Bibliografia


1 Alternative Medicine Review – Monograph. Acetyl-L-Carnitine. Volume 4, Number 6, December 1999 available on:http://www.thorne.com/altmedrev/mono-acetyl4-6.html.
2 John H. Furlong N.D. Acetyl-L-Carnitine: Metabolism and Applications in Clinical Practice Alt Med Rev 1996;1(2):85-93.
3 Bucci L. I nutrienti come aiuti ergogeni per lo sport e per l’esercizio fisico. Sandro Ciccarelli Editore SRL., Firenze 1999, pag 48-54.
4 Crayhon R. The carnitine miracle. M. Evans and Company Inc. New York, 1999.
5 Patti F et al. Effects of L-acetil-carnitina on functional recovery of hemiplegic patients. Clinical Trials Journal 1988; 25 (Suppl 1), 87-101.
6 Bratman S. Natural Health Bible. Edited by Stepven Bratman, M.D. & David Kroll, PhD 1999, p 151-153.

Fonte: http://www.olympian.it/

Acido Alfa Lipoico e sua integrazione

alaIntroduzione

L’acido alfa lipoico è un composto che ricopre un ruolo chiave nel metabolismo energetico cellulare della maggior parte degli esseri viventi, a partire dai batteri per arrivare fino all’uomo. Sono inoltre note le sue spiccate proprietà antiossidanti. Per questa ragione, l’assunzione di acido alfa lipoico sotto forma di integratore alimentare, può essere di grande utilità per attivare queste funzioni di vitale importanza per l’organismo.

Acido alfa lipoico: ruolo e biochimica

L’acido alfa lipoico è una molecola relativamente piccola formata da una catena di otto atomi di carbonio e due di zolfo collocati nella parte terminale. Nella forma ridotta, nota anche con il nome di acido diidrolipoico, gli atomi di zolfo sono presenti come tioli liberi (-SH), mentre nella forma ossidata, grazie alla generazione di un legame disolfuro (-S-S-), danno origine ad una struttura terminale ad anello (“dithiolane ring”). Data la sua particolare struttura molecolare, l’acido alfa lipoico può sia andare incontro a reazioni di ossido-riduzione, che fungere da trasportatore di elettroni, o di gruppi acetilici (o altri acili). (Vedi figura 1)
Per questo motivo, l’acido alfa lipoico agisce da cofattore per numerosi enzimi che partecipano al processo di conversione del glucosio, degli acidi grassi e delle altre fonti energetiche in adenosin trifosfato (ATP) (es. piruvato deidrogenasi, alfa-chetoglutarato deidrogenasi). Tale processo, che avviene a livello dei mitocondri cellulari, comprende quel complesso insieme di reazioni che è noto con il nome di “ciclo di Krebs”. La disponibilità di acido lipoico a livello cellulare, aumenta la percorribilità del ciclo di Krebs e conseguentemente anche l’efficienza dell’intero processo.

Attività antiossidante

L’acido alfa lipoico possiede alcune particolari caratteristiche che lo rendono non solo straordinariamente efficace come antiossidante, ma anche assolutamente indispensabile al nostro organismo per contrastare i danni associati alla formazione di radicali liberi. Le peculiarità che lo rendono unico sono le seguenti:
Alta assorbibilità: essendo una molecola relativamente piccola, l’acido alfa lipoico può essere prontamente assorbito e trasportato attraverso le membrane cellulari dove può quindi esercitare la sua azione.
Versatilità: l’acido alfa lipoico mantiene la sua attività sia nei comparti cellulari acquosi (citoplasma) che in quelli lipidici (membrana cellulare).
Mantenimento del potere antiossidante in entrambe le forme: sebbene la forma ridotta (acido diidrossi lipoico) sia la più attiva, anche a quella ossidata sono associabili apprezzabili proprietà antiossidanti.
Ampio spettro d’azione: l’acido diidrossi lipoico è attivo contro numerose specie radicaliche (ad esempio: radicali di tipo perossil, idrossil e perossi-nitritico, oltre a superossidi ed idroperossidi).
Rafforza e completa la rete difensiva messa a punto dalle altre molecole antiossidanti. L’acido alfa lipoico nella forma ridotta (acido diidro lipoico) è in grado di donare il suo elettrone alle forme ossidate e quindi non più attive di glutatione (glutatione disulfide) e di vitamina C (acido deidroascorbico), rigenerandole a glutatione ridotto e ad acido ascorbico. A sua volta, la vitamina C in forma ridotta è in grado di riattivare la forma ossidata della vitamina E (cromanossil radicale) riducendola a tocoferolo (vitamina E attiva). A tutto questo processo può essere associato carattere di ciclicità. Dopo la donazione di un elettrone, l’acido diidro lipoico ritorna alla forma ossidata di acido lipoico. Dal momento che anche l’acido lipoico nella forma ossidata possiede proprietà antiossidanti, il ciclo di rigenerazione può proseguire nell’interesse della cellula.
Contenimento della fuoriuscita di radicali liberi originatisi in concomitanza di un metabolismo energetico spinto: la metabolizzazione dell’energia attraverso il ciclo di Krebs, quando è molto spinta, favorisce la formazione di radicali liberi. Anche se la maggior parte di questi radicali sono contenuti nell’ambito delle reazioni chimiche del metabolismo energetico, una piccola parte può fuoriuscire e condurre gradualmente al danneggiamento cellulare. La disponibilità di acido lipoico, sebbene aumenti la percorribilità del ciclo di Krebs ed il conseguente rendimento energetico, incrementa anche il contenimento dei radicali liberi in formazione nel corso dell’intero processo. In tal modo viene garantito un sufficiente effetto protettivo, anche in condizioni di elevato rendimento energetico.

Miglioramento del controllo del glucosio

L’acido alfa lipoico non è in grado solo di incrementare l’efficienza dell’insulina, ma può migliorare anche il trasporto del glucosio all’interno delle cellule utilizzando vie indipendenti da quelle dell’insulina stessa. Tutto ciò, unitamente ad una migliore efficienza dell’utilizzazione del glucosio attraverso i normali processi metabolici, contribuisce alla normalizzazione del livello di glucosio nel sangue. In tal modo, la probabilità che si formino alcuni pericolosi composti di carattere radicalico, i cosiddetti AGEs (“Advanced Glycation End-products”) risulta sensibilmente ridotta. Tali prodotti si possono infatti generare a partire dalle proteine cellulari in seguito all’accumulo di elevati livelli di glucosio nel sangue. È ormai noto come le reazioni di glicosilazione e la formazione degli AGEs contribuiscano all’invecchiamento ed alla degenerazione cellulare. In loro presenza aumenta anche la predisposizione dell’organismo nei confronti di alcune patologie, in particolare modo di quelle che interessano l’apparato cardiovascolare.
L’acido alfa lipoico possiede inoltre la proprietà di ridurre la resistenza all’insulina, tipico fenomeno che concorre all’insorgenza di alcune patologie, quali il diabete e la cosiddetta “Sindrome X” (un disturbo collegato sempre alla resistenza insulinica ed, a seconda dei casi, anche ad altri fattori, quali ad esempio: l’intolleranza al glucosio, il sovrappeso, l’ipertensione arteriosa, la trigliceremia e l’ipercolesterolemia).

Per la funzionalità nervosa

L’acido alfa lipoico è in grado di proteggere i nervi dal danneggiamento agendo su diversi fronti. In primo luogo, limitando i danni provocati dai radicali liberi, li preserva da una pericolosa degenerazione. Secondariamente, migliorando la velocità della comunicazione nervosa, ne ottimizza la funzionalità. Inoltre, l’acido alfa lipoico esercita un’azione normalizzante nei confronti della sensibilità nervosa, riducendo in tal modo sia il dolore che la torpidità sensoriale.
Nel caso particolare della sciatalgia, ad esempio, sembra che la somministrazione di acido alfa lipoico possa aumentare nel nervo sciatico la presenza di alcune sostanze ad azione neurotropica, quali ad esempio il neuropeptide Y. Ciò migliorerebbe sensibilmente la funzionalità nervosa e diminuirebbe il dolore.

Contro la cataratta

Da numerosi studi condotti su animali è emerso come la somministrazione di acido alfa lipoico possa ridurre il rischio della comparsa di cataratta. Questa patologia è molto spesso correlata ad elevati livelli di glucosio nel sangue ed alla sovraesposizione alla luce solare. Tali fattori infatti contribuiscono alla formazione di radicali liberi, i quali possono poi provocare danni alle proteine delle lenti dell’occhio e favorire la generazione degli AGEs.
Uno dei principali antiossidanti presenti nel fluido che circonda l’occhio è il glutatione. Come è già stato detto, l’acido alfa lipoico può contribuire alla rigenerazione del glutatione. Tutto ciò risulta di particolare importanza dal momento che la molecola del glutatione, a causa delle sue dimensioni, non è facilmente assorbibile a livello intestinale e quindi neppure prontamente assimilabile per via orale. C’è inoltre da sottolineare che l’acido alfa lipoico contiene zolfo, vale a dire uno dei più importanti componenti della molecola del glutatione. L’integrazione con acido alfa lipoico può dunque risultare di grande utilità per incrementare i livelli di glutatione nel nostro organismo, soprattutto nei distretti nei quali esso riveste particolare importanza.

Altro

L’ictus è una grave patologia alla base della quale si colloca la formazione di un coagulo che blocca il flusso di sangue in un vaso del cervello e conduce al parziale o totale soffocamento delle cellule nella zona interessata. Anche dopo che è stata rinstaurata la circolazione, data comunque l’avvenuta formazione di un ingente quantitativo di radicali liberi, le cellule possono continuare ad essere danneggiate. In questo caso, la disponibilità di acido alfa lipoico può risultare di vitale importanza per la minimizzazione dei danni.
Le applicazioni terapeutiche dell’acido alfa lipoico possono estendersi anche in altri campi, ad esempio nel trattamento degli avvelenamenti da funghi Amanita e Galeriana. Le tossine prodotte da questi funghi, infatti, sono in grado di inibire la normale funzionalità del fegato e di distruggere le cellule epatiche. L’estrema tossicità di tali composti può condurre a conseguenze gravissime che comprendono, in funzione della dose ingerita, anche il coma e la morte. Il trattamento più diffuso è rappresentato dal trapianto del fegato. Questa soluzione, per motivi di varia natura, non è sempre attuabile. L’azione benefica che può esercitare in questi casi l’acido alfa lipoico non sembra tanto diretta alla neutralizzazione delle tossine quanto piuttosto alla stimolazione della reattività delle cellule epatiche. Ciò è direttamente visibile dalla graduale normalizzazione di alcuni enzimi, quali ad esempio la SGPT.
L’azione epato-protettiva esercitata dall’acido alfa lipoico è di notevole interesse terapeutico, anche se necessita di ulteriori approfondimenti. Per queste ragioni, gli integratori a base di acido alfa lipoico potrebbero in futuro rappresentare un’ulteriore arma preventiva a nostra disposizione per la difesa nei confronti delle sostanze tossiche con le quali possiamo involontariamente venire a contatto tutti i giorni.

Posologia e tossicità

L’acido alfa lipoico è solitamente presente in maggiori quantità nei tessuti che sono più ricchi di mitocondri, ovvero di quelli organelli cellulari nei quali avvengono la maggior parte delle reazioni deputate alla produzione di energia. In pratica, l’acido alfa lipoico è presente nelle foglie delle piante che contengono mitocondri e nei tessuti vegetali non fotosintetici, quali ad esempio i tuberi delle patate. Ne sono particolarmente ricchi anche i broccoli e gli spinaci. La maggiore fonte di acido lipoico rimane comunque la carne rossa e alcune frattaglie (in particolare modo il cuore).
Sebbene l’acido lipoico non rappresenti di per sé un costituente definibile come essenziale, dal momento che il nostro organismo è in grado di sintetizzarlo, esso si ritrova comunque in quantità abbastanza ridotte nel corpo umano. Sussistono inoltre problemi di biodisponibilità per l’acido lipoico contenuto negli alimenti in quanto esso è presente in forma complessata con la lipolisina e crea un insieme più grande e più difficilmente assorbibile.
Quanto fino ad ora osservato gioca dunque a favore dell’assunzione di acido alfa lipoico tramite integrazione. I dosaggi ottimali possono variare di molto in funzione delle caratteristiche individuali, dello stile di vita, dell’attività fisica, dell’esposizione ai raggi solari e della dieta.
La dose comunque normalmente consigliata a scopo genericamente preventivo nei confronti delle degenerazioni causate dai radicali liberi per i soggetti sani è di 50 mg/die, da assumersi preferibilmente in associazione con altri composti ad azione antiossidante (quali ad esempio: vitamine A, C, E, Selenio, Coenzima Q10, etc..). Per l’attenuazione dei disturbi collegati all’intolleranza al glucosio ed alla Sindrome X sono invece suggeriti dai 100 ai 300 mg/die.
In presenza di soggetti diabetici, invece, sono consigliabili 600 mg/die, da assumersi però sotto stretto controllo medico. In tali casi infatti, la somministrazione di alte dosi di acido alfa lipoico può diminuire il fabbisogno di altri farmaci in grado di abbassare il livello di glucosio nel sangue.
Per quanto concerne la tossicità, possiamo affermare che l’assunzione giornaliera di 50 mg/die di acido alfa lipoico non è stata fino ad oggi collegata con alcun effetto collaterale specifico. Alcuni studi, che hanno coinvolto dosaggi da 100 a 600 mg/die per periodi dai tre ai sei mesi, hanno evidenziato una bassa tossicità sugli esseri umani. Per dosaggi molto più alti sono invece stati riportati, anche se solamente in casi sporadici, significativi decrementi della glicemia ed alcune reazioni allergiche a livello cutaneo. Altre ricerche hanno inoltre documentato l’assenza di potere mutageno, teratogeno o cancerogeno.

Acido alfa Lipoico – Proprietà

– COME POTENTE ANTIOSSIDANTE, CONTRASTA EFFICACEMENTE I PROCESSI DEGENERATIVI RADICALICI
– COME REGOLATORE DEL GLUCOSIO E DELL’INSULINA PREVIENE L’INSORGENZA DI ALCUNE PATOLOGIE E/O NE ATTENUA I SINTOMI (DIABETE, SINDROME X, CATARATTA, ICTUS, ETC)
– INCREMENTANDO L’EFFICIENZA DEL CONSUMO DI GLUCOSIO, AUMENTA L’ENERGIA DISPONIBILE
– RIDUCE LA GLICOSILAZIONE E LA RELATIVA FORMAZIONE DEGLI AGES (RESPONSABILI DELL’INVECCHIAMENTO E DELLA DEGENERAZIONE CELLULARE).
– MIGLIORANDO LA VELOCITÀ DELLA COMUNICAZIONE NERVOSA, NE OTTIMIZZA LA FUNZIONALITÀ.
– ESERCITA UNA FUNZIONE NORMALIZZANTE NEI CONFRONTI DELLA SENSIBILITÀ NERVOSA, RIDUCENDO IN TAL MODO SIA IL DOLORE CHE LA TORPIDITÀ SENSORIALE (ES. SCIATALGIA).
– COME STIMOLANTE DELLA FUNZIONALITÀ EPATICA, NE POTENZIA LE CAPACITÀ DETOSSIFICANTI.

ACIDO ALFA LIPOICO
Tabella riassuntiva

ATTIVITÀ ANTIOSSIDANTE
È facilmente assorbibile
È versatile: è attivo sia in ambiente lipidico che acquoso
Mantiene il potere antiossidante sia in forma ossidata che in forma ridotta
È attivo contro numerose specie radicaliche
Rafforza e completa la rete difensiva formata dalle altre molecole antiossidanti.
Contiene la fuoriuscita di radicali liberi originatisi in occasione di un metabolismo energetico spinto.

CONTROLLO DELLA GLICEMIA
Incrementa l’efficienza dell’insulina
Riduce la resistenza all’insulina
Riduce i livelli di glucosio nel sangue
Riduce la formazione di AGEs

DOSE CONSIGLIATA
Per i soggetti sani: 50 mg/die
Per l’attenuazione dei disturbi collegati all’intolleranza al glucosio ed alla Sindrome X: dai 100 ai 300 mg/die.
Per i soggetti diabetici: 600 mg/die, da assumersi sotto stretto controllo medico.

SINERGIE CON
Altri composti ad azione antiossidante (quali ad esempio: vitamine A, C, E, Selenio, Coenzima Q10, etc..).

Bibliografia
Challem J, Berkson B, Smith MD. (1999). Syndrme X. The complete nutritional program to prevent and reverse insulin resistance. John Wiley & Sons Inc.NY, p. 159-170.
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Fonte: http://www.olympian.it/

Vitamina C e sua integrazione

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La vitamina C è un componente importante e generalmente disponibile in frutta, verdura ma anche carni.

Nonostante quello che si pensi, quando il consumo di carboidrati è molto ridotto, il bisogno di vitamina C diminuisce.

E’ evidente che come regola generale (ma soprattutto per chi segue la Paleo dieta), la vitamina C come tutte le altre sostanze dovrebbero essere assunte tramite i cibi.

Prendiamo ad esempio la frutta (spesso ricca di antiossidanti come la vitamina C) che contiene grandi quantità di antiossidanti per prevenire l’ossidazione dagli zuccheri (specialmente il fruttosio) che essa stessa contiene.

Questo però non è sempre possibile. in particolar modo quando i cibi che arrivano sulla nostra tavola sono (frutta e verdura) coltivati con pesticidi, costretti a maturare in microclimi artificiali ed in presenza di gas, o cresciuti su un suolo ormai “esaurito” o addirittura contaminato da sostanze chimiche. Stesso discorso per le carni di animali allevati in spazi angusti o alimentati con soia e granaglie.

Quali sono gli alimenti ricchi di vitamina C?

I cibi generalmente ricchi di vitamina C sono:
gli agrumi (arance, limoni, pompelmi)
i frutti tropicali
le fragole
i kiwi
le bacche (lamponi, mirtilli, more)
i pomodori
i broccoli
i peperoni (rossi e verdi)
il cavolfiore
i cavoletti di Bruxelles
il prezzemolo

Ed altri ancora. E’ buona regola consumare questi cibi crudi (o lievemente cotti) affinché possano conservare una maggiore quantità di vitamina C.

A cosa serve la vitamina C?

La vitamina C è necessaria per la produzione di alcuni componenti fondamentali per il nostro corpo.
1.Collagene
2.Carnitina
3.Norepinefrina e Epinefrina (Adrenalina)
4.Enzimi

Inoltre, la vitamina C:
Contribuisce al rafforzamento del sistema immunitario
Previene l’ossidazione del colesterolo nel sangue
Regola i livelli di zucchero nel sangue
Previene febbre e raffreddore
Protegge la salute degli occhi
Preserva i batteri buoni dell’intestino e lo protegge da Candida ed altri parassiti
Controbilancia la presenza di nitrati
E’ necessaria per mantenere i livelli di glutatione, il principale anti-ossidante del sistema immunitario.

Una carenza di vitamina C può provocare una tendenza a carie e fratture, perdita di capelli e denti, perdita muscolare, gengivite, difficoltà a guadagnare muscoli, guarigione lenta delle ferite, dolori articolari. Carenze importanti di vitamina C possono addirittura portare alla morte, se non curate.

La carenza di vitamina C può essere molto pericolosa e potenzialmente fatale:
1.senza carnitina, il corpo diventa affaticato e debole, mentre la ridotta attività mitocondriale accelera l’invecchiamento.
2.Senza collagene, tutti i tessuti deperiscono, compreso il cuore, i vasi sanguigni, i muscoli, l’intestino e le ossa.
3.Senza il riciclaggio di glutatione, lo stress ossidativo aumenta e le difese immunitarie si indeboliscono, portando ad infezioni ed infiammazione.

Secondo Paul Jaminet, persone giovani ed in salute dovrebbero integrare la vitamina C con 400 mg al giorno. Nelle persone malate, dosi maggiori possono portare benefici.

Particolarmente interessante la storia di un agricoltore neo-zelandese che dopo aver contratto l’influenza suina, essere stato in fin di vita e considerato senza alcuna speranza di sopravvivere (i medici suggerirono ai familiari di staccare le macchine per tenerlo in vita), gli furono somministrate dosi massicce di vitamina C (100 grammi al giorno). Per la somministrazione la famiglia dovette battersi a lungo contro il parere dei medici ed arruolare un avvocato per “costringere” i medici a curare il paziente con vitamina C.

Dopo la cura di vitamina C, il paziente si è ripreso ed è guarito completamente (anche dalla leucemia, diagnosticatagli dai medici dopo l’aggravarsi dell’influenza suina). La sua commovente storia, in questo video.

Inoltre, vari studi clinici hanno dimostrato i numerosi benefici per chi assume vitamina C:
secondo “The first national health and nutrition examination survey epidemiologic follow-up study” si è scoperto che nelle persone che integravano almeno 300mg di vitamina c al giorno, il rischio di morte (per qualsiasi causa) diminuiva del 35% negli uomini e del 10% nelle donne. Il tasso di mortalità da malattie cardiovascolari diminuiva del 42% negli uomini e del 25% nelle donne, e la mortalità dal cancro si riduceva del 22% neglio uomini e del 14% nelle donne. Inoltre, gli uomini che assunsero 800 mg di vitamina C al giorno vissero 6 anni di più delle persone che ne avevano assunto la dose generalmente consigliata (90 mg per gli uomini e 75mg per le donne).
“The “Nurses Health Study” che ha seguito la salute di 85.000 donne per oltre 16 anni ha scoperto che l’assunzione di integratori di vitamina C era associata ad una riduzione di rischio di malattie del cuore del 28%.
Uno studio incrociato che analizzava nove studi e che ha seguito 290.000 adulti per circa 10 anni ha scoperto che coloro i quali assumevano più di 700 mg di integratori di vitamina c al giorno vedevano ridotto del 25% il rischio di malattie coronarie rispetto a coloro i quali non integravano la vitamina C.

Tossicità della vitamina C

Trovare effetti negativi da alte dosi di vitamina C è davvero difficile.

Dosi (per via orale) superiori a 4 grammi al giorno possono provocare nausea e diarrea. Questo è il motivo per cui il limite massimo al giorno è di 2 grammi. Anche se la tolleranza a livello intestinale è molto variabile. Ad esempio, in persone malate la tolleranza può raggiungere anche i 100 grammi al giorno.

Nei pazienti affetti da cancro, la vitamina C può ridurre gli effetti della chemioterapia. Ecco perché solitamente viene somministrata in modalità intermittente.

Dosi consigliate di vitamina C (secondo Paul Jaminet)

L’integrazione di vitamina C in persone sane va da 500 mg fino a 1 grammo al giorno e generalmente non crea problemi, anzi, produce una serie di benefici tra cui una significativa riduzione del tasso di mortalità.

In persona malate, secondo gli studi del Dr. Robert Cathcart le dosi dovrebbero essere maggiori. Sempre dopo aver consultato il vostro medico di fiducia.

(Alcuni dati sono stati estrapolati dal libro Perfect Health Diet di Paul & Shou-Ching Jaminet)


Fonte: Codice Paleo

L’importanza della Vitamina D

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L’ottimizzazione della vitamina D riduce i tassi di mortalità del 50%.

Si tratta di una vitamina liposolubile e contribuisce a varie attività tra cui: la funzione immunitaria, il metabolismo del calcio e del fosforo, la mineralizzazione delle ossa.

La vitamina D è fondamentale per:

il metabolismo dei grassi
la prevenzione del cancro
l’autoimmunità
la fertilità
l’insulino-resistenza
il diabete di tipo 1 e 2
le malattie cardiovascolari
l’azione anti-infiammatoria
la funzione tiroidea

La vitamina D è principalmente “fabbricata” nella pelle, quando si è esposti al sole; è inoltre presente in alcuni cibi come l’olio di di fegato di merluzzo.

La carenza di vitamina D porta a rachitismo ed indebolimento immunitario. Una buona parte della popolazione (oltre il 50%) soffre di carenza di vitamina D. Anche seguire una paleo dieta equilibrata, in assenza di integratori o sufficiente esposizione solare, non è sufficiente per avere adeguati livelli di vitamina D,

La carenza di vitamina D è estremamente dannosa per la salute. Tra le varie cose, una carenza contribuisce a:

Tumore: in particolare per i tumori a carico del seno, l’intestino e le ovaie. Aumentare i livelli di vitamina D di 20 ng/ml può ridurre l’incidenza di tumore al seno del 41%.
Malattie cardiovascolari: i livelli di vitamina D predicono chi morirà di infarto: minore il livello di vitamina D, maggiore la probabilità di un attacco di cuore mortale. In Europa, le morti per malattie coronarie sono correlate ai livelli di radiazione solare: più sole, meno morti.
Mortalità: persone con più alti livelli di vitamina D hanno meno probabilità di morire (per qualunque causa). Nel LURIC study, solo l’8% dei soggetti aveva un livello di vitamina D superiore a 30 ng/ml. Queste persone correvano 1/4 del rischio di morire rispetto a coloro i quali ne erano carenti. In questo studio, un team di scienziati austriaci scoprì che bassi livelli di vitamina D indicavano un rischio maggiore di morte per le malattie cardiovascolari.
Diabete: un maggiore livello di vitamina D è associato con minori tassi di diabete.
Malattie infettive: in presenza di forte rachitismo, le persone morivano frequentemente di infezioni respiratorie, come polmonite, tubercolosi ed influenza. L’influenza ed altre infezioni respiratorie colpivano principalmente in inverno, quando il livello di vitamina D si abbassa. Queste connessioni non sono casuali. In un esperimento condotto su studenti giapponesi, l’integrazione con 1.200 UI al giorno di vitamina D ridusse il rischio di influenza del 42%.
Demenza: la vitamina D è molto efficace nel miglioramento della funzione cognitiva nei pazienti con l’Alzheimer. In un caso, un medico dello stato di Georgia riportò che un paziente con l’Alzheimer che non aveva parlato per un anno, ritrovò la capacità di conversare alcuni mesi dopo aver integrato con 5.000 UI di vitamina D al giorno.
Sclerosi multipla: è ben noto il fatto che l’incidenza della sclerosi multipla è maggiore nei paesi con latitude nord ed è fortemente associata a bassi livelli di vitamina D.
Malattie della tiroide: la carenza di vitamina D è associata a malattie autoimmuni della tiroide.

Uno dei motivi per cui i sostenitori della Paleo dieta enfatizzano così tanto l’importanza della vitamina D sta nel fatto che è possibile esserne carenti anche seguendo una Paleo dieta bilanciata. Il motivo non risiede troppo nei cibi che consumiamo, ma solo perché la fonte principale di vitamina D è il sole.

Per chi lavora in ufficio o spende parte del tempo in ambienti chiuso o ancora vive in climi poso “soleggiati”, le probabilità di essere carenti di vitamina D sono assai elevate. Questo perché la vitamina D viene prodotta dal colesterolo nella pelle quando a contatto con i raggi solari. Infatti, il colesterolo è un componente fondamentale per la nostra salute, e coloro i quali assumono statine per ridurre i livelli di colesterolo sono ancora più a rischio di essere carenti di vitamina D.

La popolazione Inuit ad esempio, che non si espone molto al sole, ha comunque la pelle abbastanza scura poiché ottiene la vitamina D da uno dei pochi cibi che la contiene: pesci ad alto contenuto di grassi. E’ infatti il grasso del pesce che contiene vitamina D.

In sostanza, si stima che oltre il 50% della popolazione mondiale sia carente di vitamina D, e livelli di vitamina D sotto 30 ng/ml sono stati associati a rischio fratture, cancro, disfunzioni del sistema immunitario, malattie cardiovascolari ed ipertensione.

Quanta vitamina D assumere secondo Mark Sisson?

Una buona regola generale è quella di integrare con 4.000 UI di vitamina D al giorno. Ma prima di integrare, eseguite l’esame del sangue 25(OH)D per verificarne i livelli. Cercate di raggiungere i 50-60 ng/ml di vitamina D, dove pare si possano ottenere i migliori benefici. Se 4.000 UI al giorno non sono sufficienti, si può sempre aumentare la dose (chiedete al vostro medico), tenuto conto che il nostro corpo è in grado di produrre 10.000 UI in meno di un’ora, integrazioni fino a 10.000 UI risultano ben tollerate.

Quanto vitamina D assumere secondo Robb Wof?

Una stima, piuttosto cauta, dei livelli ancestrali normali si aggira sulle 10.000-20.000 UI di vitamina D al giorno da esposizione solare.

Diamo un’occhiata a qualche dato interessante. La gran parte degli istituti di ricerca raccomanda livelli di vitamina D tra 30 e 35 ng/ml, mentre le popolazioni che vivono all’equatore, e sono molto esplose al sole, presentano livelli nei tessuti che arrivano a 65-80 ng/ml. Diversi studi hanno dimostrato che livelli superiori ai 50 ng/ml sono in grado di prevenire il cancro e l’autoimmunità, il che non dovrebbe sorprenderci, visto che questi sono, con ogni probabilità, i livelli normali su cui si è assestato il nostro genoma, che risale al Paleolitico. Visti i benefici della vitamina D, credo che per la maggior parte delle persone sia ragionevole integrare con 2.000-5.000 UI al giorno di vitamina D (D3).

Prendete la vitamina D al mattino insieme a un pasto che contenga grassi. Se volete monitorare i vostri livelli nel sangue, dovreste trovare il modo di assumere vitamina D sufficiente a raggiungere valori intorno a 50-65 ng/ml di vitamina D.

Chi soffre di iperparatiroidismo dovrà mantenere il dosaggio inferiore a 1.000 UI al giorno, perché c’è il rischio che, per queste persone, la vitamina D raggiunga dosaggi tossici.

Quanta vitamina D secondo Chris Kresser?

Contrariamente a quello che alcuni ricercatori e medici raccomandano, non esiste alcuna evidenza che aumentare i livelli di vitamina D oltre 50 ng/ml faccia bene, anzi ci sono evidenze che ciò possa fare male. Uno studio dimostra che il picco di densità ossea si ottiene a 45 ng/ml, visto che poi diminusce una volta che i livelli di vitamina D superano i 45 ng/ml.

Un altro studio ha dimostrato il rischio di calcoli renali e malattie cardiovascolari con alti livelli di vitamina D, dovuti ad elevati livelli di calcio che accompagnano l’eccesso di vitamina D.

E’ comunque importante ricordare che la presenza di vitamina A e K2 ci proteggono dalla tossicità della vitamina D e viceversa. E’ quindi possibile che negli studi sopra citati i soggetti con un eccesso di vitamina D fossero carenti di vitamina A e/o K2. Questo è il motivo per cui è così importante integrare con tutte le vitamine liposolubili contemporaneamente.

Durante l’estate, una mezz’ora di esposizione solare (a mezzogiorno) di una persona con carnagione chiara produce 10-20.000 UI di vitamina D. Per chi ha la pelle scura, o si espone al sole in periodi diversi dell’anno o passa più tempo in ambienti chiusi, la produzione di vitamina D sarà ben inferiore.

Inoltre, vanno considerati altri fattori come l’invecchiamento, l’obesità, alti livelli di cortisolo, l’aumentata permeabilità intestinale (leaky gut), un basso consumo di grassi (oppure non digerirli bene), l’assunzione di alcuni farmaci o l’infiammazione che riducono la nostra capacità di convertire le radiazioni solari in vitamina D. Questo è il motivo per cui l’esposizione solare non è solitamente sufficiente per il nostro fabbisogno di vitamina D.

Con questo in mente la gran parte delle persone dovrebbe assumere intgratori di vitamina D. La quantità necessaria per manenere livelli di vitamina D sui 35-50 ng/ml varia a seconda dei fattori summenzionati, ma secondo l’esperienza clinica di Chris Kresser, la dose consigliata varia da 2.000 a 5.000 UI di vitamina D al giorno. E’ comunque importante verificare i livelli di vitamina D prima di integrare e dopo alcuni mesi di assunzione per determinare la corretta dose di mantenimento.

Ci sono poi le eccezioni. Ovvero in chi soffre di ipotiroidismo, può verificarsi che anche se i livelli di vitamina D (tramite esame del sangue) risultano nella media, il soggetto sia comunque carente. In questo caso, potrebbe essere opportuno assumere integratori per aumentare i livelli di vitamina D.

Tossicità della vitamina D

La vitamina D è largamente considerata la più tossica di tutte le vitamine e i tremendi avvertimenti a riguardo sono spesso divulgati per evitare un eccesso di vitamina D sia nella dieta che nell’esposizione solare. Il dibattito sulla vitamina D ha comunque mancato di prendere in considerazione l’interazione tra la vitamina A, D e K. Varie evidenze suggeriscono che la tossicità della vitamina D risulta da una carenza relativa di vitamine A e K. Quindi, la soluzione non è quella di evitare l’esposizione solare o i cibi ricchi di vitamina D ma piuttosto di unire a queste azioni (e aumentare) l’assunzione di vitamine A e K (con la dieta e/o integratori).

Come avete letto, i pareri sono diversi, motivo in più per effettuare il test e rivolgersi ad un bravo medico per valutare il dosaggio più adeguato. Anche perché in farmacia, per acquistare la vitamina D serve la ricetta.

Bibliografia


Fonte: Codice Paleo

 

Indice glicemico: un valore così importante?

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L’indice glicemico (IG) rappresenta un punto cardine per molte diete, tra cui la dieta a zona, la South Beach diet ed il metodo Montignac.

Come ogni argomento dibattuto, i pareri sulla validità di questo “strumento” sono a dir poco discordanti. Vi lascio quindi leggere il risultato delle ricerche di alcuni esperti per trarre le migliori conclusioni per la scelta dei cibi da consumare.

Cos’è l’indice glicemico?

L’indice glicemico (IG) è un sistema di classificazione numerica utilizzato per misurare la velocità di digestione e assorbimento dei cibi contenenti carboidrati e il loro conseguente effetto sulla glicemia, cioè sui livelli di glucosio nel sangue.

Michael & Mary Dan Eades su indice glicemico, mele e glucosio

Dopo gli studi del Dr. Jenkins ad inizio degli anni 80, si è sempre più radicata l’idea che i cibi a basso indice glicemico fossero buoni, mentre quelli con alto indice glicemici fossero dannosi.

Il problema però di questa teoria sta nel fatto che l’indice glicemico non compara le mele con le mele. Ma compara le mele con il glucosio. Le mele contengono un complesso mix di pectine, lignine, cellulosa ed altre sostanze conosciute come fibre, oltre ai carboidrati puri. Le fibre rallentano l’assorbimento dei carboidrati puri, causando una bassa risposta glicemica e che probabilmente ha anche altri effetti indipendenti sui livelli di zucchero e sull’insulina. Cosìcché l’indice glicemico della mela è una funzione non dei carboidrati che contiene, ma delle azioni del resto della mela su questi carboidrati.

Nora Gedgaudas su indice e carico glicemico

Per esempio, ci sono due differenti modi in cui un alimento può essere considerato a basso indice glicemico.
Può essere composto da fibra, per cui non contiene zucchero né si converte in zucchero una volta ingerito.
Può contenere fruttosio, il quale non ha particolari effetti sull’insulina, ma è estremamente glicante, il che può essere estremamente dannoso sia per le arterie che per i tessuti. Infatti, il fruttosio è da 20 a 30 volte più “glicante” (quindi più dannoso) del glucosio.

Una cosa che l’indice glicemico non prende in considerazione sono gli altri cibi consumati insieme, che possono alterare gli effetti glicemici di un particolare alimento. Inoltre, l’indice glicemico si basa su una finestra temporale di 3 ore e non tiene in considerazione certi cibi come gli zuccheri dell’alcool che hanno un effetto glicemico ed un impatto sui livelli di zucchero nel sangue ritardati (qualcosa che non si era compreso fino a poco tempo fa).

L’indice glicemico in certi casi, può essere quindi fuorviante. C’è forse però un altro modo più utile per calcolare il contenuto di carboidrati nei cibi, il carico glicemico. Il carico glicemico prende comunque in considerazione l’indice glicemico, ma si basa sullo standard della porzione ed è calcolato prendendo l’indice glicemico assegnato, diviso per 100 e poi moltiplicato per il reale contenuto di carboidrati in una data porzione. Non si tratta di un metodo perfetto, ma sicuramente migliore dell’indice glicemico.

Ron Rosedale su indice glicemico e fruttosio

L’indice glicemido è sicuramente un valido strumento ma di certo non perfetto. Per questioni economiche e di tempo, la maggior parte degli esperimenti per determinare l’impatto di un particolare cibo sui livelli di zucchero nel sangue non si protrae oltre le 3 ore dalla somministrazione.

Sebbene il fruttosio abbia un basso indice glicemico, può causare seri problemi di salute. Primariamente promuovendo insulino-resistenza ed accumulo di grasso. Infatti, provoca più danno nel corpo del glucosio. Alcuni ricercatori hanno somministrato fruttosio ai topi da laboratorio al fine di indurre insulino-resistenza diabetica per testare l’efficacia di medicinali anti-diabetici.

Gary Taubes su indice glicemico, grassi saturi e diabete

Negli anni 80, gli studi di Jenkins e Wolever sull’indice glicemico come strumento di controllo degli zuccheri del sangue scatenarono un vivace diabttito tra gli esperti di diabete.

Il Dr. Reaven, ricercatore presso la Stanford University sosteneva che il concetto di indice glicemico non avesse senso e che fosse addirittura pericoloso: i grassi saturi non hanno indice glicemico e quindi aggiungere grassi saturi a zucchero ed altri carbidrati ridurrà il loro indice glicemico, facendo risultare questo mix di cibi “benigno” anche se non è proprio così.

Reaven inoltre screditò l’indice glicemico come elemento su cui la clinica si basa circa i livelli di zucchero nel sangue, quando invece considerava l’insulina, e l’insulino-resistenza la cosa più importante su cui porre l’attenzione […] Il punto focale è che l’indice glicemico del saccarosio è più basso dell’indice glicemico di farina (pane) ed amidacei (patate), e la ragione è nel fruttosio. I carboidrati negli amidacei vengono scomposti durante la digestione, prima in maltosio e poi in glucosio, il quale si sposta direttamente dal piccolo intestino al flusso sanguigno. Questo comporta un immediato aumento degli zuccheri nel sangue e quindi dell’indice glicemico.

Una tavoletta di zucchero (ad esempio il saccarosio) è composta sia da glucosio che fruttosio. Il glucosio si sposta nel sangue ed aumenta i livelli di zucchero, come se provenisse da un amidaceo, ma il fruttosio può essere metabolizzato solo nel fegato e così gran parte del fruttosio consumato è indirizzato dal piccolo intestino direttamente al fegato. Come risultato, il fruttosio ha un effetto immediato minimo sui livelli di zucchero nel sangue, e così, solo metà di glucosio dello zucchero si riflette nell’indice glicemico. E siccome il fruttosio viene rilevato a fatica nell’indice glicemico, è sembrato che fosse il dolcificante ideale per i diabetici.

Definendo i carboidrati come buoni o cattivi a seconda del’indice glicemico, i diabetologi hanno effettivamente sbagliato diagnosi circa l’impatto del fruttosio sulla salute. Il punto è l’influenza del glucosio o fruttosio non sugli zuccheri del sangue ma sul fegato. Il glucosio arriva direttamente nel sangue ed è immagazzinato dai tessuti e gli organi come fonte di energia; solo il 30-40% passa attraverso il fegato. Il fruttosio invece passa direttamente dal fegato, dove è metabolizzato quasi totalmente. Come risultato, secondo il Dr. Eleazar Shafrif, “il fruttosio costituisce un carico metabolico per il fegato, ed il fegato ne risponde convertendolo in trigliceridi – grasso.”

Diete vegetariane ed indice glicemico

La restrizione dei carboidrati è spesso associata all’aumento di prodotti di origine animale. Il motivo è semplice: se mangi principalmente o esclusivamente vegetali (vedi vegani e vegetariani), stai ottenendo il totale delle calorie dai carboidrati. Questo non significa che non puoi dimagrire o mantenerti magro eliminando zuccheri, farina ed amidacei e consumando solamente verdure a foglia, cereali e legumi. Ma probabilmente, non funzionerà per molti di noi.

Verdure e legumi hanno il vantaggio di contenere carboidrati che non si digeriscono velocemente, quello che i nutrizionisti chiamano un “basso indice glicemico”, ma se ci basiamo su questi cibi come unica fonte della nostra dieta, il totale di carboidrati che consumiamo (carico glicemico) sarà comunque alto. E questo può essere un motivo sufficiente per ingrassare. Soprattutto per quanto riguarda coloro i quali consumano principalmente verdura, frutta e cereali. In queste persone, non è raro ritrovare la tipologia fisica dello “skinny-fat”, ovvero una struttura generalmente magra con una concentrazione di grasso sulla pancia.

Dr Mercola su indice glicemico e fruttosio

L’indice glicemico, che misura quanto velocemente i carboidrati si converto in zucchero nel sangue, non è mai stato accettato da molti dietologi. Questa premessa, che alcuni cibi possono seriamente innalzare i livelli di zucchero nel sangue e come risultato, causare danno all’organismo, è vera. Il problema però è che l’indice glicemico non è uno strumento valido per determinare quali cibi sono la causa di questo effetto.

I valori dell’indice glicemico presentano troppe eccezioni per essere davvero utili. Un esempio classico è il fruttosio, che ha un indice glicemico molto basso, ma è stato chiaramente individuato come responsabile dell’aumento di peso in molte persone. Il punto è che numerosi fattori hanno un ruolo di come un dato alimento influirà sulla glicemia. L’indice glicemico, per esempio, non tiene conto di come un cibo o un ingrediente specifico incide nel tempo. Inoltre, non tiene conto del danno provocato da sostanze chimiche come il sucralosio, il sorbitolo o il fruttosio raffinato (per chi non segue la Paleo dieta), suppostamente “alimenti” a basso indice glicemico.

Stephan Guyenet su indice glicemico e ‘fructose index’

In questo studio del Dr. Johnson, si sostiene che la quantità di fruttosio che si trova in un cibo, denominato “fructose index” è più importante per la salute rispetto all’indice glicemico di un alimento. E visto che elevati livelli di zucchero cronici e dell’insulina sono parte della sindrome metabolica, per molto tempo si è pensato che l’indice glicemico potesse essere un buon indicatore dell’effetto metabolico di un determinato cibo nell’organismo.

La mia fede in questo concetto iniziò a vacillare quando iniziai ad approfondire le mie conoscenze sulle diete adottate da culture tradizionali che godevano di ottima salute. Ad esempio, i Kitava ottengono il 69% di calorie da cibi ad alto indice glicemico (principalmente tuberi e vegetali) con poco grasso aggiunto. Si tratta di molti carboidrati ad assorbimento rapido. Eppure, sovrappeso, elevati livelli di insulina ed altri sintomi della sindrome metabolica sono praticamente inesistenti.

In definitiva, l’indice glicemico può ancora essere uno strumento utile per chi ha problemi di controllo del glucosio come i malati di diabete tipo 2, ma non sono sicuro di quanto l’indice glicemico sia utile, oltre alla semplice restrizione del consumo di carboidrati. Ridurre il fruttosio può essere un modo più efficace per sistemare l’insulino-resistenza invece di consumare una dieta a basso indice glicemico.

Bibliografia


1.“Primal body, primal mind” di Nora T. Gedgaudas
2.“The Rosedale Diet” di Ron Rosedale
3.“Protein Power” Di Michael & Mary Dan Eades
4.“Good calories, bad calories” di Gary Taubes
5.“Why we get fat” di Gary Taubes
6.http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_glicemico
7.http://wholehealthsource.blogspot.it/2008/11/fructose-index-is-new-glycemic-index.html
8.http://articles.mercola.com/sites/articles/archive/2006/03/23/glycemic-index-deception-finally-understood.aspx


Fonte: Codice Paleo

Gli acidi grassi polinsaturi Omega-3 ed Omega-6

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In pochissime parole.

I grassi Omega-6 promuovono l’infiammazione.

I grassi Omega-3 riducono l’infiammazione.

I grassi polinsaturi Omega-6 ed Omega-3 sono considerati essenziali perché, diversamente dai grassi saturi e monoinsaturi non possono essere prodotti dal glucosio. E devono quindi essere ottenuti tramite il cibo.

I grassi Omega-3 originano nelle alghe e nelle verdure a foglia verde, mentre gli Omega-6 arrivano principalmente dai semi. E visto che i semi contengono molto più olio dei vegetali e possono essere cresciuti a basso costo, questo è il motivo per cui l’industria del cibo trova più conveniente l’utilizzo di oli di semi come soia, mais, e cartamo.

Oli vegetali ed Omega-6

Gli oli vegetali (ad eccezione dell’olio d’oliva) sono ricchi di Omega-6 e quindi tossici in grandi dosi. L’olio di soia è composto per il 55% da Omega-6, l’olio di mais per il 54% e l’olio di cartamo per il 75%. Inoltre, gli oli vegetali provenienti da grani e legumi, oltre ad avere Omega-6 in abbondanza, contengono tossine delle piante (anti-nutrienti), come nel caso dell’olio di soia, dell’olio di mais e dell’olio di arachidi.

Putroppo, per i motivi summenzionati, questi oli (veloci ed economici da produrre) vengono messi un po’ ovunque nei cibi confezionati, anche in quelli apparentemente più salutari, dai condimenti per l’insalata fino ai biscotti. Per fortuna, chi segue, ad esempio, la Paleo dieta, non ha di questi problemi. Ma per gran parte della popolazione (soprattutto in certi paesi), il problema sussite.

E allora, quali sono le conseguenze sulla salute quando lo squilibrio in favore dei grassi Omega-6 è eccessivo (fino a 25:1 in certi casi)?

A titolo esemplificativo e non esaustivo:
malattie cardiovascolari
diabete tipo 2
obesità
sindrome metabolica
sindrome del colon irritabile ed altre malattie infiammatorie a carico ddell’intestino
degenerazione maculare
artrite reumatoide
asma
cancro
disordini mentali
malattie autoimmuni

Gli effetti tossici derivanti dall’eccessivo consumo di Omega-6

Negli USA, la popolazione consuma circa il 9% della propria energia da grassi Omega-6 (la tossicità inizia al 4%).

A causa di questa eccessiva ingestione di Omega-6, gli Americani hanno tassi elevati di malattie del fegato, aterosclerosi, obesità, allergie, asma, malattie mentali, problemi intestinali e cancro. Oltre ad un tasso di mortalità molto elevato.

I grassi polinsaturi (sia Omega-6 che Omega-3) causano malattie del fegato quando consumati in abbinamento con fruttosio ed alcol, poiché aumentano lo stress ossidativo nel fegato.

Al contrario, i grassi saturi (olio di cocco, burro chiarificato) prevengono le malattie del fegato.

Questi 3 studi confermano quanto appena enunciato:

1. In uno studio pubblicato nel 1995, alcuni ricercatori provocarono malattie del fegato nutrendo dei topi con una combinazione di alcol e olio di pesce (ricco in omega-3). Poi interruppero la somministrazione di alcol e divisero il gruppo dei topi in 2 parti. Il primo gruppo fu alimentato con olio di pesce e glucosio. Il secondo gruppo con olio di palma (grasso saturo) e glucosio. Il fegato dei topi nutriti con olio di pesce non guarì. Mentre invece il fegato dei topi alimentati con olio di palma arrivò vicino ad uno stato di normalizzazione.

2. Uno studio del 2007 ha comparato i risultati di una dieta ricca di carboidrati ed olio di mais (62% carboidrati, 21% olio di semi, 17% proteine) con una dieta a basso contenuto di carboidrati ed olio di cocco o burro (17% carboidrati, 71% olio di cocco o burro, 12% proteine). I topi che consumarono una dieta a base di olio di cocco o burro, nonostante carenze di importanti nutrienti che sono solite causare malattie a carico del fegato, mantennero un fegato sano. I topi alimentati con olio di semi svilupparono gravi malattie del fegato.

3. In uno studio del 2004, alcuni scienziati provocarono malattie del fegato nei topi nutrendoli con olio di mais ed alcol. Poi, sostituirono l’olio di mais con una dieta ricca di grassi saturi (olio di cocco e sego) per il 20%, 45% e 67%. Più aumentavano i grassi, più migliorava la salute il fegato dei topi.

La competizione tra gli acidi grassi polinsaturi

Gli acidi grassi Omega-3 ed Omega-6 sono in competizione tra di loro. Competono per gli stessi enzimi e per un posto nei tessuti del corpo. Ora supponiamo che una cellula del tuo corpo abbia un posto libero. Se in presenza di 10 Omega-6 ed un solo Omega-3, quali sono le chance che quel posto sia occupato da Omega-3?

Molto poche. Quando c’è uno squilibrio in favore degli Omega-6, questi “vincono” sempre, anche se le cellule hanno ugualmente bisogno di entrambi.

Il discorso è evidentemente un po’ più complesso ma il concetto rende l’idea di quanto sia indispensabile mantenere un buon rapporto tra questi acidi grassi essenziali.

Quali sono allora i vantaggi derivanti dall’assunzione di Omega-6 (nelle dosi consigliate) quando equilibrate nel rapporto con Omega-3?
migliora la densità dei minerali nelle ossa
riduce la stato di depressione
diminuisce stati di rabbia, aggressività ed ansietà, riduce comportamenti suicidi e di auto-sabotaggio.
migliora la fase di recupero da interventi ed infezioni ed accorcia i tempi di degenza negli ospedali
riduce i dolori dell’artrite reumatoide
riduce i sintomi di eczema e psoriasi
contribuisce all’eliminazione di acne e rosacea
supporta le cure contro il cancro
previene e migliora la neuropatia diabetica

Dose consigliata di Omega-6

Il consumo ottimale di Omega-6 è probabilmente tra il 2% e 3% dell’energia totale. La tossicità comincia a partire dal 4%.

Loren Cordain sull’equilibrio tra omega-3 ed omega-6

Ecco un brano tradotto da un’intervista di Robert Crayhon a Loren Cordain.

Robert Crayhon: Quale dovrebbe essere il rapporto tra Omega-6 ed Omega-3 nella nostra dieta?

Loren Cordain: nel nostro laboratorio di ricerca, abbiamo analizzato vari tessuti di animali selvaggi ed abbiamo scoperto che il tessuto muscolare contiene un rapporto tra Omega-6 ed Omega-3 di 3,5-4 : 1.

Questo rapporto è più alto nel midollo osseo, e leggermente più basso in alcuni organi. Nel cervello, il rapporto è di 1:1. I nostri antenati prima dell’avvento dell’agricoltura, a differenza dell’età moderna, amavano nutrirsi degli organi di animali selvaggi. Certamente, mangiavano il cervello degli animali che uccidevano.

Il rapporto tra Omega-6 ed Omega-3 non poteva essere molto inferiore di 4:1 nutrendosi solo di carne. Consumando solo cervello, si sarebbe ottenuto un rapporto all’incirca di 1:1. Consumando anche pesce, il rapporto di 4:1 si sarebbe ulteriormente ridotto.

Inoltre, aggiundendo gran parte dei cibi vegetali (ma non tutti) il rapporto di 4:1 si sarebbe ancor più ridotto. La conclusione a cui sono arrivato è quindi la seguente:

ll rapporto medio tra Omega 6 ed Omega 3 durante il periodo antecedente l’agricoltura sarebbe potuto essere sempre inferiore di 4:1, ma probabilmente non meno di 2:1, a seconda della stagione, la zona e la ripartizione dei macro-nutrienti.

Bibliografia


1.“Perfect Health Diet” di Paul e Shou-Ching Jaminet
2.https://chriskresser.com/how-too-much-omega-6-and-not-enough-omega-3-is-making-us-sick
3.http://paleozonenutrition.com/2011/05/10/omega-6-and-3-in-nuts-oils-meat-and-fish-tools-to-get-it-right/


Fonte: Codice Paleo

Quante proteine al giorno in una dieta ben strutturata?

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In una ricerca pubblicata nel 2006 e condotta da Bilsborough & Mann, si suggerisce che la quantità di proteine da assumere dovrebbe essere compresa tra 1,5 grammi e 2,5 grammi per Kg di peso corporeo al giorno, con un picco massimo (considerato ancora “sicuro”) di 3,56 grammi di proteine per Kg di peso corporeo al giorno.

Per chi soffre di malattie renali o cirrosi del fegato, il limite di proteine non dovrebbe superare gli 0,8 grammi per Kg di peso corporeo al giorno. Tuttavia, si tratta di un’indicazione vaga, e l’unico modo per saperlo è rivolgersi ad un medico preparato.

Gabriel Bellizzi

Le patate americane dolci (batate) o patate, sono una buona fonte di carboidrati?

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Parliamo di due tipologie di patate: le patate dolci, patate americane o batate (ipomea batatas) e le patate a pasta bianca (solanum tuberosum), anche se le varietà sono molte. Per comodità, da ora in poi, chiameremo le prime “patate dolci” e le seconde “patate bianche”.

Patate ed indice glicemico

Quando si parla di patate bianche, una delle più frequenti accuse che vengono mosse è che hanno un indice glicemico più alto rispetto alle patate dolci (oltre al fatto che hanno un indice glicemico relativamente alto per chi segue, ad esempio, la paleo dieta). Quando ingeriamo cibi con alti indici glicemici, i livelli di zucchero nel sangue aumentano velocemente e questo richiede uno sforzo pancreatico per produrre una sufficiente risposta insulinica al fine di trasferire il glucosio in eccesso nel sangue nelle cellule (a grandi linee) e quindi ripristinare normali livelli di zucchero nel sangue.

In persone predisposte a problemi metabolici, se questi eventi si ripetono quotidianamente per più e più settimane, si corre il rischio di diventare insulino-resistenti, una condizione che precede di frequente lo sviluppo di una serie di malattie conosciute come sindrome metabolica. Durante il corso di mesi ed anni, l’insulino-resistenza porta ad una moltitudine di effetti nefasti per la nostra salute, tra cui obesità, diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari, pressione alta, elevati livelli di colesterolo, infiammazione sistemica, gotta, acne e tumore del colon, prostata e seno.

Però..

Le patate bianche bollite hanno un indice glicemico di circa 82, mentre le patate dolci 70.

Se cotte in forno e con la buccia, entrambe aumentano il valore dell’indice glicemico (più o meno, visto che poi esistono una miriade di varietà di patate). Ad ogni modo, se lasciamo per un attimo da parte l’indice glicemico e ci concentriamo sul carico glicemico (che viene spesso considerato un miglior indicatore dei livelli di zucchero nel sangue), tra le due varietà di patete non esiste praticamente alcuna differenza. Le patate bianche infatti hanno un carico glicemico di circa 21 mentre le patate dolci 22.

Questo indica che le patate bianche hanno più glucosio che fruttosio. Mentre invece le patate dolci hanno più fruttosio e saccarosio (la metà è fruttosio) e meno glucosio ed amido rispetto alle patate bianche. In termini di qualità nutrizionale, il glucosio risulta molto più disponibile nell’organismo e più facilmente assorbibile per il recupero muscolare post esercizio fisico. Il fruttosio non è “cattivo” nelle dosi naturali che si trovano nella frutta o nelle patate dolci, ma non è ideale come fonte di carboidrati. In definitiva, le patate bianche hanno un indice glicemico più alto, ma questa caratteristica non le rende necessariamente meno salutari delle patate dolci.

Anti-nutrienti e Patate

Le patate dolci, se ben cotte e pelate, mantengono una bassissima concentrazione di anti-nutrienti, nocivi per la nostra salute. Per quanto riguarda invece le patate bianche, la situazione è ben diversa, risultando “ricche” di anti-nutrienti tra cui saponine, lectine ed inibitori della proteasi.

Inoltre, le patate bianche appartengono alla famiglia delle solanacee, un gruppo di vegetali che include anche pomodori, melanzane e peperoni. Questi vegetali per la presenza di glicoalcaloidi possono aumentare la permeabilità intestinale in soggetti intolleranti. Sono inoltre da evitare per chi soffre di malattie autoimmuni e per chi ha dolori cronici alle articolazioni.

Le saponine (comunemente riferiti ai glicoalcaloidi sotto forma di alfa-caconina e alfa-solanina) prendono il nome dalla loro capacità di generare una schiuma (simile al sapone) quando a contatto con l’acqua. Come per gli anti-nutrienti dei legumi, le saponine hanno l’obiettivo di tenere lontani microbi ed insetti. Quando roditori o animali di tagli più grandi (umani inclusi) ingeriscono tuberi contenenti glicoalcaloidi come le patate, queste sostanze spesso e volentieri creano dei “buchi” nella parete intestinale aumentando così la permeabilità.

Però..

Da notare che le più alte concentrazioni di questi glicoalcaloidi tossici risiede nella buccia delle patate, che se bollite hanno circa 27-42 mg di saponine al kg. Anche i pomodori contengono saponine (di un tipo differente dalle patate) e gli asapragi ne hanno circa 15.000 mg al kg (sebbene la concentrazione maggiore risieda nel gambo).

Ad oggi, sappiamo poco circa la soglia di concentrazione necessaria per aumentare la permeabilità intestinale (leaky gut) e provocare gli effetti nefasti associati.

Le patate dolci sono nutrienti, un’aggiunta saporita alla paleo dieta. Una paleo dieta non dev’essere necessariamente o cronicamente low-carb ed a meno che non ci siano problemi metabolici, siate in forma ed attivi (sport!), risulta difficile trovare un buon motivo per non consumare, di tanto in tanto, una bella porzione di patate dolci. Per atleti o persone in salute e normopeso, che si allenano frequentemente e con una certa intensità le patate dolci (sweet potatoes, yams) rappresentano un’ottima risorsa di carboidrati ed una fonte di gran lunga superiore ai cereali.

Una persona senza problemi di metabolismo può utilizzare tutti i macronutrienti di un alimento fresco e naturale senza alcuna disfunzione metabolica. Questo è il motivo per cui ci sono comunità di cacciatori-raccoglitori come gli isolani di Kitava in Papua Nuova Guinea o i Pigmei Mbuti dell’Africa che consumano una dieta ricca di tuberi amidacei, mantenendo ottima salute e buona forma fisica oppure gli abitanti delle isole Tokelau in Nuova Zelanda (che prima della colonizzazione vantavano una salute di ferro) che consumavano una dieta ricca di grassi saturi (da cocco insieme a patate dolci e platano) che prevedeva la ripartizione di macronutrienti in 52% di grassi, il 36% di carboidrati ed il 12% di proteine.

Per cui, la scelta di mangiare patate ha molto a che fare con il proprio metabolismo. Per chi ha problemi metabolici, è sovrappeso, insulino-resistente, le patate dovrebbero essere limitate, se non addirittura eliminate del tutto. Per le persone magre ed attive, non penso che un po’ di patate rosse per cena creino alcun problema.

Giudicare un alimento solamente per la composizione dei suoi macronutrienti è da stupidi. E’ difficile da credere, ma ci sono voluti 50 anni per capirlo. Abbiamo grassi buoni (saturi ed omega-3) e grassi cattivi (omega-6), carboidrati buoni (amidacei) e carboidrati cattivi (fruttosio), buone proteine (carne) e cattive proteine (glutine). E’ la qualità dei macronutrienti, non la sua classificazione che li rende buoni o cattivi.

Dovremmo quindi tutti mangiare patate? Sfortunatemente, no.

Non perché ci sia qualcosa di poco salutare nelle patate, ma perché molte persone non possono digerire fonti di carboidrati densi in modo salutare. Inoltre, è bene tenere conto del livello di attività fisica e della condizione metabolica. In sostanza, questi carboidrati forniscono energia per l’attività fisica. Per chi vive una vita sedentaria, è meglio che si inizi a muovere oppure è meglio mantenere il consumo di carboidrati basso. I carboidrati vanno “guadagnati”. Per chi ha problemi metabolici, questi devono prima essere risolti perché significa che i carboidrati non vengono digeriti correttamente. Finisce così che che vengono immagazzinati come grasso e non come energia disponibile.

Ma per chi è in forma e si allena ad un buon livello, non solo può, ma deve consumare una fonte di carboidrati come le patate.

Come ridurre l’impatto glicemico delle patate

Alcuni rimedi per ridurre l’indice glicemico delle patate dolci:

Cuocere a temperatura medio-bassa. Se bollite, l’indice glicemico delle patate dolci rimarrà tra 50 e 60, se invece cotte ad alte temperatura (arrosto), l’indice glicemico arriva a 100.

Consumare le patate dolci insieme ai grassi. Il grasso rallenta la velocità con cui l’amido viene digerito, riducendo così il picco glicemico a seguito del pasto.

Mangiare le patate dolci con le verdure. Aggiungere fibre al pasto riduce in modo significativo l’indice glicemico dell’amido.

Consumare le patate dolci con sostanze acide. Aceto o succo dei crauti riducono l’indice glicemico degli amidacei.

Considerazioni finali sulle patate

Come avrete visto, esistono ancora punti oscuri sull’argomento. Tuttavia, gli esperti concordano sul fatto che per chi non ha problemi di ordine metabolico, di peso, fa esercizio fisico frequentemente, o non ha interesse a seguire una paleo dieta chetogenica continua, un consumo moderato di patate dolci non appare eccessivamente “pericoloso” . Sulla questione anti-nutrienti, c’è ancora molto da scoprire. Ma per quello che sappiamo oggi, le patate dolci sembrano essere la scelta migliore rispetto alle patate bianche.


Fonte: Codice Paleo

I 2 più importanti fattori di rischio in materia di Colesterolo?

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Mark Sisson su colesterolo e infiammazione

Per esempio, gli abitanti Giapponesi dell’isola di Okinawa risultano essere tra le popolazioni più in salute al mondo. Il tasso di malattie del cuore è estremamente basso, anche se tendono ad avere elevati livelli di colesterolo.

Il punto è che tutto è collegato all’infiammazione. L’infiammazione è il fattore principale nelle malattie cardiovascolari. E’ ormai un argomento assodato, tuttavia riceve sempre poca attenzione, senza particolare prevenzione né trattamento. Per controllare i livelli di infiammazione esiste un test che si chiama Proteina C Reattiva (PcR) tramite prelievo del sangue. E’ solo un marker, ma che può dirci molto.

Da cosa è causata l’infiammazione?

Non dai grassi, ma dai carboidrati. Zuccheri e carboidrati raffinati sono al primo posto nella lista dei responsabili, ma anche cereali e amidacei contribuiscono al problema. Il colesterolo LDL non aumenta proporzionalmente con un maggiore consumo di grassi saturi, ma con l’incremento dei livelli di infiammazione causati dai carboidrati e dai grassi idrogenati.

Inoltre, quasi ogni studio suggerisce che il colesterolo LDL sia una vera minaccia solo quando è ossidato (dai radicali liberi). Stiamo parlando principalmente di grassi idrogenati. Per contrastare i radicali liberi, è necessario consumare antiossidanti come vegetali, frutta, noci, olio d’oliva e così via.

Quando i valori dei trigliceridi ematici sono elevati (solitamente ciò è dovuto a un’alimentazione ad alto tenore di carboidrati che provoca un eccessivo rilascio di insulina), la produzione di VLDL (very low density lipoprotein) aumenta vertiginosamente per gestire la quantità anomala, e molte di queste particelle possono essere convertite in particelle LDL piccole e dense (le più pericolose). Si è appurato che queste ultime sono le particelle di colesterolo che possono aderire alle pareti delle arterie e successivamente ossidarsi e infiammarsi. Il processo aterosclerotico è ulteriormente accelerato dal consumo dei PUFA, facilmente ossisabili. Una dieta con un ridotto contenuto in carboidrati consente la riduzione del numero di queste pericolose particelle.

Su questo argomento, quanto sostenuto dalle opinioni convenzionali è totalmente sbagliato. Mentre è vero che i farmaci che riducono i livelli di colesterolo (statine), o un’alimentazione a basso contenuto di grassi e/o vegetariana può ridurre i livelli di trigliceridi e colesterolo nel sangue, una dieta che comporta un’eccessiva produzione di insulina avrà come effetto quello di infiammare e ossidare tutte le LDL piccole e dense che siano ancora presenti. Un esempio “sfortunato” è stato quello del giornalista Tim Russert, stroncato nel 2008 da un infarto all’età di 58 anni, malgrado avesse livelli di colesterolo totale estremamente bassi (105 mg/dl) grazie all’uso delle statine.

In definitiva, non c’è alcuna correlazione diretta tra il consumo di colesterolo e grassi saturi e la malattia cardiaca; l’ipotesi convenzionale che i grassi facciano male al cuore si verifica esclusivamente qualora sia presente nel sangue, per lunghi periodi, una quantità eccessiva di glucosio e di insulina.

Sul colesterolo totale

Cosa dicono? Cerca di mantenere il colesterolo totale sotto 200, altrimenti prima o poi ti verrà un infarto.

Mark Sisson: Quanto appena scritto non ha alcun significato. Anche se l’evidenza epidemiologica suggerisce che un colesterolo totale tra 200 e 240 mg/dl è migliore per limitare tutte le cause di mortalità, non possiamo essere completamente d’accordo. Prima di tutto, il valore del colesterolo totale è limitato poiché ci dice solamente la quantità di colesterolo contenuto in tutte le lipoproteine senza dirci niente circa il tipo di lipoproteine che abbiamo o che ci sono.

Secondariamente, il colesterolo totale è limitato poiché viene determinato tramite una formula bizzarra (HDL-C+LDL-C+[Trigliceridi/5]) che riduce i vari tipi di lipidi nel sangue, ognuno con un ruolo differente nell’organismo ed un unico impatto sul rischio di ammalarsi, a semplici numeri. Qualcuno con un basso livello di HDL e trigliceridi alti potrebbe facilmente avere lo stesso colesterolo totale di qualcun altro con livelli alti di HDL e bassi trigliceridi. Per cui, sebbene sia utilizzato per prevedere malattie o salute di ferro, il colesterolo totale in sé non ha alcun valore.

Il Dr. Joseph Mercola su colesterolo e rischio cardiovascolare

Secondo il Dr. Mercola, il livello totale di colesterolo non è un grande indicatore del rischio cardiovascolare.

Nei test di laboratorio viene indicato un valore massimo di 200 per il colesterolo totale come ottimale per ridurre i rischi cardiovascolari. Ma quello che non si dice è che i livelli di colesterolo totale non hanno alcun significato a meno che tale valore non sia superiore a 330.

Negli ultimi 20 anni, il colesterolo è stato considerato il primo responsabile per la demonizzazione di intere categorie di alimenti (come uova e grassi saturi) e accusato per ogni caso di malattie del cuore. Qualcosa da tenere il più basso possibile per non subirne le conseguenze.

Del resto, ancora oggi, vive quasi indisturbato il mito che descrive i grassi ed il colesterolo come alcuni tra i peggiori cibi che si possano consumare. Ecco, sappiate che questi sono miti da sfatare che fanno male alla vostra salute.

Non solo il colesterolo (molto probabilmente) non rovinerà la nostra salute (come ci hanno fatto credere), ma non è neppure la causa delle malattie cardiovascolari.

Robb Wolf su colesterolo HDL e carboidrati

Ho accennato al fatto che l’acido palmitico può aumentare le particelle LDL, ma la verità è che sono i carboidrati ad avere un effetto molto maggiore sul colesterolo e, in generale, sul rischio di malattie cardiovascolari. Ecco di seguito alcune cose da ricordare riguardo l’eccessivo consumo di carboidrati e all’iperinsulinismo che ne consegue.

Quando si assumono troppi carboidrati il colesterolo LDL viene convertito nella sua versione piccola, densa e aterogenica (la più pericolosa).
Il colesterolo totale aumenta a causa della sovraregolazione della HMG-CoA reduttasi.
L’infiammazione sistemica aumenta attraverso la sovraregolazione delle molecole proinfiammatorie come le prostaglandine, le citochine e i leucotrieni.

Quando si parla di colesterolo e malattie cardiovascolari, le cose importanti da ricordare sono:
concentrare l’attenzione sulle quantità e sulla qualità dei carboidrati che si consumano, privilegiando le verdure e utilizzando la frutta e i tuberi come fonte di energia per l’esercizio fisico intenso.
cercare di creare equilibrio tra omega-3 ed omega-6 che rispecchi le proporzioni di 1:1 o 1:2, mangiando prevalentemente carne di animali alimentati esclusivamente a erba e pesce non allevato, e limitando al contempo l’assunzione di omega-6.

Colesterolo basso, statine, infiammazione ed infarti

Questo studio indica che la maggior parte delle persone che hanno un infarto hanno il colesterolo basso!

Ora, tutti sono impegnati nel cercare di abbasare i livelli di colesterolo e somministrare statine per salvare le persone, ma la gran parte degli infarti avviene in persone con livelli bassi di colesterolo!

Sorprendentemente, le statine sembrano diminuire il tasso di infarti in pazienti con livelli bassi di colesterolo.

Il meccanismo?

Possibilmente una riduzione della Proteina C Reattiva, un indicatore di infiammazione sistemica.

Sapete cos’altro riduce l’infiammazione sistemica?

Una paleo dieta che controlli i livelli di insulina, che elimini i cibi irritanti per l’intestino, che riequilibri il rapporto tra omega 3 ed omega 6. Che aggiunga vitamina D ed ore di sonno. Così facendo, si disattivano i fattori infiammatori causanti malattie cardiovascolari, cancro e neurodegenerazione.

Fonte: Codice Paleo