Se per qualsiasi motivo si utilizza l’olio di pesce e si scopre che non da i benefici ricercati dopo un paio di settimane, ciò può essere dovuto al proprio peso corporeo. Più il peso del soggetto è elevato e più lentamente le concentrazioni degli acidi grassi omega-3 aumentano nel corpo. Gli psichiatri americani presso la Ohio State University hanno scoperto ciò quando hanno preso in esame dei soggetti di giovane età ai quali hanno fatto assumere capsule di olio di pesce. (1)
I ricercatori hanno somministrato a 28 giovani di età compresa tra i 7 ei 14 anni, tutti sofferenti di disturbi dell’umore, quattro capsule di olio di pesce al giorno per 12 settimane. Hanno usato un prodotto realizzato dall’American OmegaBrite. (2) Ogni capsula conteneva 350mg di EPA, 50mg di DHA e 100 mg di altri acidi grassi omega-3. Così i soggetti hanno assunto giornalmente 2g di acidi grassi omega-3.
Più i soggetti presi in esame avevano un peso maggiore, e meno le concentrazione ematiche di EPA e DHA aumentavano.


I ricercatori hanno scritto che, lo studio attuale dimostra chiare relazioni lineari del peso corporeo e della BMI con l’accumulo di omega-3 nei bambini e negli adolescenti. Questi dati non hanno dimostrato che il sovrappeso o l’obesità clinica siano particolarmente predittivi, piuttosto, un effetto di dose-risposta è stato osservato in tutto lo spettro del BMI.
Le linee guida per un ottimale assunzione di omega-3 nei giovani dovrebbero considerare l’utilizzo del peso anziché essere determinato in base all’età.
Gli studi che esaminano i potenziali effetti clinici degli omega-3 in giovani e adulti devono includere gli effetti del peso in modelli statistici, poiché le differenze di effetti correlate al peso possono contribuire in modo significativo alle incoerenze della letteratura corrente.
Gabriel Bellizzi
Riferimenti:
- https://doi.org/10.1371/journal.pone.0173087
- https://www.omegabrite.com/target=you
Pubblicato da Gabriel Bellizzi [also known as Ružička, The Biochemist] - CEO BioGenTech -
Negli anni trenta del ventesimo secolo si è verificata una febbre dell’oro scientifica di proporzioni inaudite nel campo della nascente endocrinologia. Questa impresa è stata portata avanti con tanta celerità grazie al pionieristico lavoro di biochimici Adolf Friedrich Johann Butenandt e Lavoslav Stjepan Ružička, entrambi premi Nobel per la chimica nel 1939 grazie proprio alla pubblicazione dell’articolo “Sulla preparazione artificiale dell’ormone testicolare testosterone (androstene-3-one--17-olio)”.
Il potenziale del Testosterone e dei suoi primi derivati che videro la luce nella seconda metà degli anni trenta del 900, arrivo’ all’orecchio degli sportivi d’élite tanto che nel 1938 vi fu una prima pubblicazione che parlava del potenziale uso del Testosterone nel Bodybuilding.
Grazie agli abbattimenti dei costi di produzione delle molecole di sintesi, resi possibili dal genio della chimica Russell Earl Marker e dalla sua “Marker degradation”, nella seconda metà degli anni quaranta l’uso di AAS si è diffuso nelle squadre olimpiche di molti paesi. Successivamente tocco’ al pubblico amatoriale. E' nel 1976 che vi fu una nuova svolta, cioè la nascita della società di biotecnologie “Genetech” nata dall’incontro tra l’imprenditore Robert Swanson e Herbert Boyer, biochimico dell’Università della California. I due decisero di fondare questa società per lo sfruttamento commerciale delle tecniche del DNA ricombinante messe a punto da Boyer. Insulina e hGH divennero parte del corollario di farmaci utilizzati dai bodybuilder, e l’era dei “Freak” venne inaugurata.
Purtroppo, lo “scandalo DOPING” negli anni 80’, e le successive restrizioni di “facciata” hanno smantellato massivamente quella nicchia di ricercatori che lavoravano a stretto contatto con gli atleti e facevano ricerca sul campo. Essi non sono “estinti” ma sono obliati da una certa narrativa di comodo. Da qui il problema presente: l’atleta è in balia di leggende e metodiche partorite da menti non avvezze alla complessità della farmacologia partendo dalle basi della biochimica.
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